Quel che sei non dipende da dove sei. Nella tradizione metafisica occidentale la cosiddetta essenza di qualcuno o qualcosa è indipendente dal luogo in cui quel qualcuno o qualcosa sta. Un cavallo sarebbe sempre un cavallo sia che galoppi libero in una prateria sia che ci osservi malinconico mentre tira dietro di sé un calesse per turisti nel traffico di Roma. L’essere di un’entità, cioè, non muta al cambiare dei diversi luoghi in cui può contingentemente venire a trovarsi (e nemmeno se il cavallo è di bronzo, come quello della statua di Marco Aurelio al Campidoglio). Questa è appunto la metafisica. Poi vengono i pendolari, e la metafisica entra in crisi.

«Questa faccenda del non sapere quale sia “casa mia” la conosco» ammette – non si capisce se a malincuore o in fondo con soddisfazione – Paolo Jedlowski nel libro che ha scritto insieme a Massimo Cerulo, Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud d’Italia (il Mulino, 2023, p. 23). È sicuramente la sensazione che prova chi cerca di attraversare il canale di Sicilia scappando da guerre e carestie, ma è anche quella molto meno angosciante che prova chi, come i due autori del libro, lavora in un posto diverso da quello in cui vive, quello, appunto, in cui si trova – con un’espressione impregnata di metafisica – “casa sua”. Una condizione che, in realtà, vivono sempre più persone, al punto che la condizione opposta, quella di chi vive e lavora nello stesso posto, sembra ormai, per quanto possa essere ancora maggioritaria, superata dai tempi. Tutto, nelle nostre vite, è in movimento e in costante cambiamento, dagli amori allo stesso lavoro, e quindi non sorprende più di tanto che anche la casa, con gli affetti che conserva, possa diventare mobile. Vite mobili, così le chiamano gli autori del libro; «non si tratta di migrazioni. Piuttosto di vite disposte in più luoghi, vite ad elastico. Non riguarda solo i professori. Abitare e lavorare in più città è oggi una condizione assai frequente. È un’esperienza che si affianca, radicalizzandola, a quelle del pendolarismo su base giornaliera che coinvolge milioni di persone» (ivi, p. 13).

Se torniamo per un momento alla metafisica, la vita di un pendolare è la vita di qualcuno che vive in una città ed in una casa ma lavora in un’altra città dove spesso avrà anche un’altra casa. Ma lavorare altrove non significa solo lavorare lontano da casa, significa soprattutto avere relazioni e inevitabilmente degli affetti diversi da quelli vissuti nella “propria” città. Il libro di Jedlowski e Cerulo ruota intorno a questa condizione – sempre più diffusa, sempre meno eccezionale – la condizione di chi vive più di una vita. È molto difficile, infatti, separare nettamente la vita professionale da quella personale, soprattutto per chi deve passare molto tempo in un luogo diverso, e spesso (come chi per lavoro si sposta nello sconosciuto Sud d’Italia), da quello in cui conduce, invece, la sua esistenza familiare, quella “non” lavorativa.

Secondo la metafisica è sempre la stessa persona quella che ha la famiglia al Nord e il lavoro al Sud, dal momento che come abbiamo visto l’essere è (o meglio, dovrebbe essere) indipendente dallo stare. Ma pensiamo al cavallo, in che senso è lo stesso cavallo quello che corre libero in una prateria insieme ad altri cavalli e quello che, invece, vediamo rinchiuso in una stalla? Il primo è abituato all’erba, all’aria, alla pioggia e al galoppo, il secondo vive in prigione, mangia biada e carote, si è adattato alla sella e ai finimenti, per non parlare di quei cavalli che sono stati castrati per essere più mansueti. In che senso le vite di questi due animali sono esempi di vita di uno stesso animale?  «Ne parlo con Vittorio», scrive Jedlowski,

il mio collega che pendola settimanalmente fra la nostra Università a Cosenza (Jedlowski insegna all’Università della Calabria) e Milano. Fra le cose che dice, c’è che prova una sorta di “de-contestualizzazione ricorrente”, cioè la sensazione di non essere mai interamente in un contesto, né in un luogo; è sempre, almeno in parte, altrove. A questa sensazione associa quella di una certa solitudine (ivi, p. 64).

Vivi a Milano, lavori a Cosenza. Dove vive, “propriamente”, il collega Vittorio di Jedlowski? Siamo sicuri che sia sempre lo stesso Vittorio quello di Milano e quello di Cosenza? Gli autori di Spaesati ci fanno sorgere il dubbio che quello che sostiene la metafisica, l’invariabilità della sostanza al variare dei luoghi in cui si trova, in realtà non sia affatto vero. L’essere non è indipendente dallo stare. Per questa ragione il «non sapere quale sia “casa mia» è una sensazione così importante, perché non esprime solo un’esitazione privata, ma un vero e proprio dubbio metafisico: chi sono io, quando mi trovo in un posto diverso da quello abituale? Un dubbio che mette in crisi, in fondo, la stessa distinzione fra luoghi abituali e luoghi non abituali. Se l’identità delle persone cambia più o meno estesamente al variare dei luoghi, possiamo ancora credere che sia sempre la stessa identità quella che si trova a Milano e quella che si trova a Cosenza?

Il problema di chi ha una vita mobile è che di vite quotidiane ne ha più d’una. Quella dei luoghi di partenza, quella dei luoghi di arrivo. E aggiungiamoci la quasi-quotidianità del viaggio. Dentro a ciascun ambito di vita, la quotidianità è diversa, e le quotidianità diverse tendono a perdere la loro aura di familiarità, di scontatezza: l’una mette in discussione la naturalità dell’altra, avverte che le cose potrebbero anche stare altrimenti (ivi, p. 61).

Ecco allora che la vita del pendolare diventa, suo malgrado, un paradigma di cambiamento nella “nostra“ metafisica, perché «le cose potrebbero anche stare altrimenti». L’essere dipende dallo stare, Paolo e Massimo a Milano non sono affatto gli stessi Paolo e Massimo a Cosenza, quindi l’essere stesso, in realtà, è mobile e mutevole. L’identità è mobile, cambia con il cambiare dei luoghi di vita. E il cambiamento sarà tanto più esteso quanto più sono lontani, nel tempo prima ancora che nello spazio, i diversi luoghi in cui si vivono le diverse vite di qualcuno. Da questo punto di vista la vita a Cosenza è molto diversa da quella di Milano, e non tanto per quello che pensa chi vive nel Nord (delinquenza, disorganizzazione dei servizi pubblici, temperature medie molto alte), quanto per il tenore davvero molto diverso delle relazioni sociali in quel particolare Sud che è quello calabrese.

Per quanto qualcuno voglia “difendersi” dai luoghi, per quanto voglia mantenere separata la vita “normale” da quella lavorativa, questa separazione alla fine non riesce, perché l’essere è intrinsecamente aperto al cambiamento. Ne segue, ed è una conclusione che ci disturba, o forse disturba solo la metafisica, «una certa evaporazione della casa in quanto riferimento fisico, oggettivo» (ivi, p. 107). Che cos’è casa, se non è più il fondamento stabile e immutabile delle nostre esistenze? Dove siamo di casa dopo che abbiamo fatto la scoperta che anche a casa “nostra” «le cose potrebbero stare altrimenti»? Una scoperta che disturba, come si notava più sopra, perché che ne sarà dell’unità delle nostre esistenze una volta che non hanno più un solido punto di ancoraggio? Possiamo ancora definirle come le “nostre” esistenze?

Questa non è una condizione sana. Ma è il limite a cui le vite mobili tendono. Avere molte esperienze può finire per significare non averne alcuna. L’esperienza dis-integrata non è esperienza. Ambulanti senza esperienza: così rischiamo di finire. A re-integrare l’esperienza è, più di ogni altra cosa, la capacità di raccontarci. Ma a chi importa che il mobil-uomo si racconti? La cosa più probabile è che i compagni di un ambito delle nostre vite si sentano traditi dal fatto che con altri viviamo altro. Non per caso, il posto dove siamo più sereni è forse il viaggio: sospesi fra più mondi, siamo in pace. Soli, ma seduti a fianco ad altri probabilmente simili (ivi, p. 95).

È il rischio delle vite mobili, la mancanza di un punto dove tutte le diverse esperienze possano convergere; senza questo punto non ha più nemmeno senso parlare di “esperienza”, dal momento che perché ci sia esperienza deve esserci un soggetto di quella stessa esperienza. Senza casa, senza stabilità anche il soggetto dell’esperienza entra in crisi, e quindi la possibilità stessa di fare esperienze. Che le vite mobili siano vite lacerate lo mette in luce Cerulo con il concetto di “spartenza”, che vuol dire «lasciarsi con sofferenza» (ivi, p. 37), sia di chi parte sia di chi rimane, entrambi esposti al turbamento dell’instabilità e dell’incertezza. Non è una festa la vita del pendolare, e nemmeno quella di chi vive con lei o con lui. Allo stesso tempo, ed è questo forse l’aspetto più interessante di questa condizione, se quella degli “spaesati” è la condizione del nostro tempo, allora questa scoperta ci permetterà di vedere con occhi diversi la nostra condizione; la mobilità non è l’eccezione, bensì la condizione normale, non c’è alcun essere indipendente dai diversi possibili luoghi in cui vive. Lo spaesato, prima degli altri – cioè di quelli che non hanno ancora vissuto la condizione della “spartenza” – scopre che il mondo non è mai “casa nostra”, e che, al contrario, il mondo è sempre là fuori, disperso e in perenne movimento. Per questo, come i due autori scrivono nelle Conclusioni:

È interessante notare che due delle parole più importanti della filosofia, esistenza ed esperienza, cominciano entrambe con il prefisso “ex”. Esistere è ex-sistere: cioè “star fuori”, fuori dall’immersione naturale nella vita, dalla certezza di quel che s’ha da fare e anche di dove s’ha da stare; è la coscienza che si differenzia dalla mera istintualità e si confronta con il mondo, sceglie, riflette. Ed esperienza è ex-per-ire: letteralmente “uscire da” e “andare attraverso”. Sono due parole complementari. Entrambe insistono sulla non-stabilità consustanziale alla condizione umana. Dalla casa originaria non si può che uscire, anzi, ne siamo sempre e comunque usciti (ivi, p. 220).
Paolo Jedlowski, Massimo Cerulo, Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud d’Italia, il Mulino, Bologna 2023.
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