Dopo oltre due anni di silenzio (apparente), South Park riemerge dai meandri dell’animazione con Sermon on the ’Mount, primo episodio della ventisettesima stagione e 329esimo della serie, andato in onda il 23 luglio 2025. Come spesso accade nel piccolo mondo di Trey Parker e Matt Stone, l’attualità americana viene presa di mira con la nota caustica irriverenza. Nel mirino non finisce solo il secondo mandato presidenziale di Donald Trump, con il consueto corredo di procedimenti legali, cristianesimo militante e documenti Epstein (Boyle), ma anche – e forse soprattutto – la “montagna” cui allude il titolo.
Il riferimento è a Paramount Global, società madre del canale “Comedy Central”, recente destinataria di una causa legale da 16 milioni di dollari intentata e vinta dal presidente. In questa cornice minacciosa, South Park si conferma ancora una volta come osservatorio grottesco e lucido sulle ossessioni politiche, mediatiche e religiose dell’America contemporanea. Se il sermone sul Monte evangelico invocava beatitudini, quello di Parker e Stone suona invece come un monito: in un’epoca in cui il potere presidenziale si contende le vette della comunicazione, nessuno è davvero intoccabile. Tranne, forse, i quattro ragazzini di South Park, eterni e implacabili testimoni dell’assurdo.
L’intreccio di Sermon on the ’Mount si snoda come satira caleidoscopica che lega religione, politica, media e disperazione preadolescenziale, nell’inconfondibile stile della serie animata. Il punto di partenza è Eric Cartman, furioso per la cancellazione della National Public Radio, emittente radiotelevisiva sovvenzionata da fondi federali, colpevole di trattare temi troppo woke secondo la sensibilità presidenziale. Nel frattempo, la scuola elementare di South Park viene investita da un’ondata di trasformazioni imposte dal governo, tanto che il preside PC – sigla che fino alle ultime elezioni stava a significare Politically Correct e oggi muta nel trumpiano Power Christian – convoca addirittura Gesù in persona invitandolo a partecipare a un’assemblea d’istituto per dare una parvenza di guida spirituale.
Convinti che il responsabile del nuovo caos che muove da Washington sia ancora il loro concittadino Mr. Garrison – il maestro che durante il primo mandato di Trump ne prese le sembianze e ruolo presidenziale – i cittadini di South Park irrompono nell’abitazione di questi, per scoprire che non è più lui a guidare la Casa Bianca. Al suo posto c’è Donald Trump – il cui volto è animato in stop motion, reminiscenza del Saddam Hussein di South Park. Il film: più grosso, più lungo & tutto intero (1999) – impegnato in schermaglie protezionistiche con il primo ministro canadese e in conversazioni in camera letto con Satana in persona, il quale non manca di stuzzicarlo sull’affaire Epstein e su attributi presidenziali meno metaforici.
Intanto Cartman, in piena crisi esistenziale, piange la fine dell’era woke: senza qualcuno da poter perseguitare non sente più la propria utilità sociale. In un crescendo di dramma grottesco, confida all’amico Butters l’intenzione di uccidersi (e di portare con sé l’amico medesimo) se il mondo non gli restituirà i suoi naturali avversari difensori degli ultimi. Nel frattempo, i cittadini cercano di far valere le proprie rimostranze con il “vero” Trump, ma ricevono in cambio un’azione legale collettiva che li riduce al silenzio. Il progetto di suicidio di Cartman e Butters, tentato assumendo monossido di carbonio in un garage, fallisce tragicomicamente perché l’auto è elettrica: concreta eredità woke. Nel frattempo, la protesta cittadina culmina in un’apparizione messianica: Gesù, a denti stretti, ammonisce la folla a ritirarsi, pena la cancellazione come già accaduto al programma televisivo The Late Show with Stephen Colbert.
Il compromesso finale vede l’avvocato Gerald Broflovski, padre di Kyle, negoziare con Trump, che impone come risarcimento una campagna propagandistica filo-presidenziale. Il risultato è un surreale PSA – spot di pubblico servizio – in live action, con un Trump animato in deepfake che cammina nel deserto prima di spogliarsi, rivelando una nudità tanto minuscola quanto metaforica. Il sipario cade infine su Cartman e Butters, ancora vivi, paradossalmente salvati dagli effetti dell’odiato senso di responsabilità ecologica.
La costruzione narrativa di Sermon on the ’Mount si regge su un equilibrismo che mescola il satirico-osceno (anche nel senso di ob skenè, fuori scena) e commento politico, portando alle estreme conseguenze una delle cifre più riconoscibili di South Park: l’ironia dissacrante. Eppure, dietro la ormai celebre gag del pene di Trump dotato di occhi – espediente surreale pensato per aggirare la censura rendendolo un “personaggio” a tutti gli effetti – si cela una produzione complessa nonché diplomatica. Come ha raccontato Parker, la discussione interna sulla rappresentazione anatomica del Presidente ha impegnato il team creativo in lunghe trattative. I produttori avevano chiesto di sfocare o “pixellare” la regione inguinale interessata – pratica comune nella censura fotografica – ma gli autori si sono rifiutati, trovando invece un’ulteriore soluzione: dotare la virilità presidenziale di occhi, trasformandola così in un’entità autonoma non più soggetta alle regole della censura.
L’episodio è stato sottoposto non solo al consueto controllo del reparto standard & practices di Paramount Global, ma anche al vaglio della direzione. Infatti quest’ultima è stata chiamata a valutarne l’impatto potenziale, tenendo nel conto la reattività dell’attuale amministrazione presidenziale. La Paramount, pur senza visionare direttamente l’episodio, ne ha infine autorizzato la trasmissione fidandosi del parere dei suoi dirigenti. Il rischio, insomma, era calcolato, e forse è proprio questa consapevolezza a rendere l’operazione tanto efficace quanto clamorosa. Sermon on the ’Mount, trasmesso il 23 luglio 2025 su “Comedy Central” – a meno di ventiquattro ore dalla firma di un accordo da 1,5 miliardi di dollari tra Parker, Stone e Paramount – ha esordito con 430mila spettatori, per poi diventare virale su “Paramount+”. La predica, insomma, è arrivata forte e chiara.
La reazione dell’amministrazione Trump non si è fatta attendere, finendo per alimentare il ciclo mediatico attorno all’episodio, confermandone – involontariamente – la centralità nell’arena politico-televisiva. La Casa Bianca ha infatti diffuso un comunicato in cui denuncia con toni veementi l’ipocrisia di una Sinistra che avrebbe a lungo condannato la serie per i suoi contenuti “offensivi” – termine che il comunicato non esita a indicare con un vistoso [sic] –, salvo poi celebrarla quando si presta alla satira contro l’attuale presidente. Inoltre, viene sottolineata l’irrilevanza dello show per mezzo di un giudizio netto: South Park sarebbe, infatti, una “trasmissione di quarta categoria” in cerca disperata di attenzione, mentre Trump, al contrario, avrebbe mantenuto più promesse nei suoi primi sei mesi di mandato di qualsiasi altro presidente nella storia americana.
Quella che poteva sembrare una semplice nota di biasimo si rivela invece un esempio di media performance contemporanea, dove il discredito non è dissimile dalla promozione involontaria, e in cui le narrazioni antagoniste si alimentano vicendevolmente. In un’epoca in cui le serie animate possono ambire a competere con i comizi per la manipolazione del discorso pubblico, l’indignazione istituzionale diventa paradossalmente una forma di legittimazione. La risposta di Parker, pronunciata il giorno seguente al “San Diego Comic-Con”, si colloca perfettamente nella grammatica della satira: un “I’m terribly sorry” ironico, all’opposto di un’ammissione di colpa. Così, Sermon on the ’Mount si afferma non solo come testo narrativo, ma come atto performativo in un campo di forze che travalica la finzione, mettendo in scena non solo Trump, ma anche – e soprattutto – il suo riflesso nel discorso mediatico.
A fungere da chiave semiologica per l’episodio in predicato è forse una parola tanto semplice quanto rivelatrice: ridicolo. Ma si tratta di un ridicolo strategico, costruito con precisione chirurgica per disinnescare la logica del potere attraverso la sua parodia più estrema. Il Trump di South Park non è il demagogo inquietante della cronaca politica, bensì una caricatura verbosa e inconcludente, più simile a un Yosemite Sam, il logorroico baffuto spara lesto e pasticcione dei Looney Toons. Personaggio eternamente urlante ma privo di vera minaccia, un simulacro che alla prova dei fatti si affloscia sotto il peso della propria presunzione di pistolero. Ed è proprio qui che la satira della serie affonda il colpo: nel mettere in scena la spettacolarizzazione del potere come teatro dell’assurdo, la cui retorica aggressiva finisce per scontrarsi con l’infantile fragilità narcisistica del personaggio stesso.
Invece, per quanto riguarda la censura (e l’autocensura Paramount) preventiva, che in teoria dovrebbe delimitare i confini del rappresentabile, questa è stata appunto aggirata con creatività sovversiva: l’aggiunta di occhi alle pudenda di Trump, per evitare il blur, diventa così metafora perfetta della post-verità contemporanea, contando peraltro che la verità nel pragmatismo americano non è un dato oggettivo ma una credenza utile (De Gaetano 2025, pp. 17-23), laddove l’identità pubblica si costruisce non su ciò che si è, ma su ciò che si riesce a performare o camuffare.
Dopo ventotto anni di onorata carriera, South Park continua a occupare una posizione singolare nel panorama audiovisivo: né realmente marginale, né pienamente istituzionale, la serie agisce come sismografo pop dell’America profonda, capace di rilevare (e ridicolizzare) scossa del discorso dominante. Il culto della personalità presidenziale viene smontato non con l’arma dell’indignazione moralistica, ma con quella più affilata del grottesco.
Posto su un cono di terra, simulacro della montagna del titolo, il Gesù di South Park alla fine pronuncia il suo sermone, non certo per ispirare beatitudini, ma per generare una risata che castigat ridendo mores, secondo il motto di Jean de Santeul. Una pratica che, in questo caso, più che correggere i costumi li toglie proprio. La satira della serie animata smaschera l’ennesimo aspirante imperatore, rivelandolo per quello che è: non un sovrano infallibile, ma una figura goffa, profondamente umana, insicura, esposta nella sua ridicola nudità. Perciò come nella fiaba di Andersen, tocca ai più piccoli – anche se qui non si tratta di innocenti – ricordarci che, per quanto alzi la voce e minacci querele, il re è e rimane nudo.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis, Milano-Udine 2025.
South Park. Sermon on the ‘Mount. Ideatore: Trey Parker, Matt Stone; sceneggiatura: Trey Parker, Matt Stone; interpreti: Trey Parker, Matt Stone, April Stewart; produzione: Paramount+; distribuzione: Comedy Central; origine: Stati Uniti d’America, anno: 2025.