Quanti fili servono per fare una treccia? Sembra questa la domanda fondamentale nel cinema di Gianfranco Rosi. E il nuovo film, presentato in concorso all’ottantaduesima Mostra del cinema di Venezia, di fili ne intreccia molti, tutti tesi sullo stesso territorio. Siamo a Napoli e dintorni, lungo il suo arco vulcanico. Seguiamo due studiosi impegnati a ricostruire gli itinerari storici e i significati di statue e reperti del Museo Archeologico Nazionale; una squadra di archeologi giapponesi china sui resti della Villa Augustea; i devoti alla Madonna dell’Arco, tra offerte votive e penitenze; la Circumvesuviana che cuce insieme diverse stazioni; i cavalli da trotto che rigano la battigia e l’ippodromo di Agnano; le forze dell’ordine sulle tracce dei tombaroli; i Vigili del Fuoco che rispondono a grandi e piccole paure; il doposcuola del maestro di strada Titti; le navi siriane che scaricano grano ucraino nel porto di Torre Annunziata. Tra accumulo e montaggio, l’ordine possibile non può che emergere dal fluire stesso. Tutto questo in un bianco e nero che tenta di garantire una presa analitica alla visione, in un contesto geologico e antropico che continuamente ne mette in crisi la stabilità, tra scosse sismiche e fumarole che disperdono segni nel cielo.

Ma Sotto le nuvole non è semplicemente un film su Napoli, e nemmeno un film sul Vesuvio. È entrambi, e al tempo stesso qualcos’altro: una riflessione sul rapporto tra il sopra e il sotto, tra il vuoto e il pieno, tra le tracce di ciò che c’era e ciò che c’è. Un gioco tra manifesto e latente che trova rilancio in una serie di memorie cinematografiche, non soltanto partenopee. Dall’inizio alla fine, torniamo più volte in un cinema abbandonato, dove, tra gli altri, si proietta Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1954), con la memorabile sequenza dei calchi pompeiani. Ma, oltre a questo riferimento esplicito, il continuo muoversi tra crateri e ipogei, tra archeologie, furti e speculazioni, invita a parafrasare Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) con un ipotetico “le mani sotto la città”, come nelle riprese che mostrano l’impotenza delle forze dell’ordine nei sotterranei depredati dai tombaroli. Troviamo dunque possibili allusioni al Satyricon (1969) e a Roma di Federico Fellini (1972), nelle visite guidate al sottosuolo e nelle apparizioni e sparizioni di un passato che (non) ritorna.

Confrontandosi con un territorio corrugato, fatto di pieghe, come quello di Napoli, lo sguardo geometrico di Rosi assume forme che potremmo definire barocche, con tanto di scorci e grandangoli: un effetto che non si determina tuttavia per un’esuberanza decorativa o per l’introduzione di movimenti di macchina curvi, ma per un sovrapporsi di linee, angoli retti e raccordi tra piani diversi. Questo, come se la città, con i suoi sotterranei, le sue scale e le sue grotte, costringesse l’immagine a flettersi e moltiplicarsi. Grazie alla resistenza del bianco e nero (e al soundscape di Daniel Blumberg), il barocco di Rosi non è mai ornamentale, ma procede per addensamenti e sovrapposizioni, generando un effetto piranesiano: coni, rampe e corridoi sembrano allargarsi e contrarsi nello spazio, mettendo in tensione prospettive e profondità diverse.

Se una divinità sovrintende al movimento di Sotto le nuvole, non è Efesto, signore del fuoco, né Prometeo, il titano della fiamma rubata, ma Hermes: dio delle soglie, dei messaggi, dei commerci e anche dei furti. L’hermeneutica partenopea del film si svolge infatti nei passaggi: corridoi, scale, gallerie, ponti radio, binari, canali di comunicazione. È lì che i Vigili del Fuoco tornano e ritornano, figure centrali non solo come corpi operativi sul territorio, ma come orecchio e voce della città, mediatori instancabili. Nel centro di raccolta delle chiamate – il 115 come plancia narrativa della città – convergono allarmi, segnalazioni, dubbi, ossessioni, paure: un tavolo di montaggio del reale, dove le molteplici serie che attraversano Napoli si intrecciano e cercano di prendere forma. È così che quanto il film lascia fuori campo – folklore e stereotipi sulla napoletanità – può riemergere nei dialoghi telefonici: una comicità che si genera nello scarto tra le aspettative e le possibilità di risposta istituzionale, tra chi chiede aiuto e chi interviene.

Come sempre nel suo cinema, Rosi non appare, non commenta. E questo aspetto può essere interpretato come una forma di distacco se non suscitare esplicite critiche, come talvolta è capitato con Fuocoammare e Notturno. Eppure, a ben vedere, il suo sguardo si manifesta proprio attraverso l’oggettivazione della visione e la configurazione della “treccia”. Da un lato, la composizione delle inquadrature rivela il tentativo di eludere gli scorci pittoreschi, concependo il Vesuvio come un massiccio continentale. Dall’altro lato, il montaggio fa emergere connessioni tra piani diversi. Il cono del Vesuvio e la conca dei Campi Flegrei, concavità e convessità naturali, risuonano con coni e conche costruiti dall’uomo: imbuti, vasche, gallerie, cumuli. I dettagli della vita quotidiana, come un intervento dei Vigili del Fuoco o la pulizia della stiva di una nave colma di grano, entrano in risonanza con le grandi forme urbanistiche e geologiche, mostrando un mondo in cui tecnica, abitudine e natura sono intrecciate e in tensione.

Proseguendo la traiettoria che da Sacro GRA a Fuocoammare, fino a Notturno, esplora avamposti, confini e camere di controllo, Rosi rimette al centro il rapporto tra infrastruttura e territorio: apparati, protocolli, mediazioni. L’intermedialità del suo cinema ha qualcosa di eminentemente ambientale, nella misura in cui si interessa alle modalità di funzionamento delle tecniche e tecnologie attraverso le quali proviamo a osservare, monitorare, disporre e prenderci cura del circostante, così come agli scarti che inevitabilmente si producono. Quali saperi e quali tecniche permettono di vigilare sul fuoco, raffreddarlo, domarlo, impedirne la propagazione incontrollata? Come si governa l’acqua nell’ampio bacino del Golfo? E, soprattutto: quali strumenti possono controllare l’asse verticale che collega la profondità della terra al cielo? Quali pratiche sono in grado di “cuocere” – per così dire, seguendo la pista culinaria ben presente nel film – un ambiente altrimenti crudo o devastante?

“Napul’è mille culure”, canta Pino Daniele. Rosi sarà sicuramente d’accordo – e come dargli torto – ma in questo caso sceglie la scala dei grigi: prescinde dal colore per evitare la dispersione e l’abbaglio. Raffredda l’immagine. Se nel corso del film il medium fotografico è tematizzato più volte – nei dettagli del paesaggio urbano, nei reperti archeologici, nelle architetture sotterranee – il bianco e nero di Sotto le nuvole, non è mai un mero effetto visivo o un generico effetto cenere. È piuttosto un’occasione per riflettere sui limiti di linee e colori, ovvero sulle tecniche di descrizione, analisi e conoscenza del mondo. Un bianco e nero bellissimo capace di esprimere un’idea di cinema e, al tempo stesso, dare forza allo sguardo.

Sotto le nuvole. Regia: Gianfranco Rosi; sceneggiatura: Gianfranco Rosi; fotografia: Gianfranco Rosi; montaggio: Fabrizio Federico; musiche: Daniel Blumberg; produzione: 21Uno Film, Stemal Entertainment; origine: Italia; durata: 115’; anno: 2025.

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