Una linea sottile affiora in mezzo all’acqua, punteggiata da boe rosse. Una linea che, nella sua evanescenza, segna in modo indelebile il passaggio tra sistemi sociali, economici e politici opposti e non comunicanti: il nord e il sud. Il prigioniero coreano (2016), ultimo film di Kim Ki-duk, parte da questo spunto per affrontare il caso paradigmatico e singolare della penisola coreana, dove questa polarità classica si riconfigura a rovescio, realizzando in senso inverso la tensione virtuale dello spostamento e del desiderio che anima la contemporaneità: dal nord al sud. La traduzione italiana dell’originale Geumul (la rete) restituisce con efficacia l’aporia di una unità sdoppiata e apparentemente non ricomponibile che ciò nonostante si percepisce in termini unitari. Le due Coree sono dunque due metà speculari e antitetiche che esibiscono quella frattura insanabile che attraversa il mondo secondo direzioni variabili, come al tempo della Guerra fredda era stato per la Germania. Confine solido – il muro – allora, confine liquido – l’acqua – adesso, sembra suggerire il film: la materialità dei confini si conforma alle fasi economiche.
Quelle boe rosse sono un limite invalicabile soprattutto per Nam Chul-woo (Ryoo Seung-bum), pescatore nordcoreano che ogni mattina sale sulla sua piccola barca per sfamare la propria famiglia, spingendosi sino ai margini del suo mondo. È un confine territoriale quello che gli si para di fronte, ma ancor prima ideologico, che sancisce il passaggio irreversibile tra forme e stili di vita tra loro inconciliabili. Un semplice incidente – l’elica del motore impigliata nella rete da pesca – avvia così la catastrofe determinata dall’attraversamento di quella soglia e l’accesso a uno spazio dove il soggetto si deve spogliare della propria identità e del proprio ruolo sociale per riconfigurarsi interamente nella nuova cornice di valori e credenze.
La forza del film di Kim Ki-duk risiede proprio in questo snodo decisivo: incastonare nella cornice di un’indagine sulle tecniche del potere la riflessione sul medium – ciò che si pone nel mezzo – tanto dal versante di una storia delle forme quanto dall’interrogazione dei suoi supporti. Da questo punto di vista, Il prigioniero coreano è dunque una notevole “opera teorica”, che assume come figura cardine il confine inteso tanto come limite geopolitico quanto dell’esperienza sensibile. Bastano pochi minuti al film per circoscrivere il perimetro di questo territorio. Da un lato si sviluppa una teoria dell’azione: lo sconfinamento di Nam è infatti dettato dalla completa casualità, espressione sintomatica di quell’errare alla deriva che definisce – deleuzianamente – il nuovo statuto del personaggio nella modernità cinematografica. Ma questa casualità non è creduta dall’ispettore di polizia che lo interroga provando a trasformarne il racconto in una classica spy-story volta alla scoperta della sua vera identità. Pescatore o spia? Attorno al tavolo della cella non si fronteggiano dunque solo le due Coree, ma anche due forme cinematografiche che ridefiniscono continuamente i rispettivi rapporti.
Dall’altro si innesta una conseguente teoria della percezione. Nam attraversa gli stadi dell’esperienza visiva secondo un percorso del quale rimarrà prigioniero senza possibilità di salvezza. La sua prima reazione è il rifiuto dello sguardo. Non voglio vedere, non voglio sapere, ripete il protagonista agli agenti di polizia, ben consapevole che, una volta rientrato in patria, dovrà raccontare minuziosamente com’è il mondo al di là del confine alle autorità nordcoreane. Le palpebre serrate – forzatamente e in modo tanto esibito – diventano il mezzo per far fronte alla paura di una visione insostenibile. Uno schermo, insomma, che tuttavia non riflette e non proietta, ma protegge, filtra, separa dal nuovo e dal contatto con l’alterità, pratica immunizzante per preservare un’identità a rischio sotto i colpi del neoliberalismo.
Nonostante gli sforzi, la raffinatezza e la potenza della tecnica del “tempo presente” hanno la meglio sul rimedio adottato, rimedio “preistorico” che figurativizza quello scarto incommensurabile tra i regimi di storicità delle due Coree. Lasciato libero nel centro di Seul a dispetto delle sue suppliche, Nam non può fare altro che aprire gli occhi ed essere investito dalla violenza della sensazione provocata dallo sfavillare delle vetrine e delle luci della città, l’esatto opposto del paesaggio nordcoreano. Da prigioniero a flâneur, si aggira ora incuriosito sovrapponendo la sua immagine riflessa nei vetri ad oggetti mai visti, nell’incastro di una doppia esposizione, del sé e delle merci. Un personaggio della modernità a tutto tondo, e tuttavia ironicamente anacronistico, circondato da schermi di vario genere, adesso all’opposto moltiplicatori di immagini e desideri. Nam però ha anche una missione: recapitare un messaggio affidatogli da un altro prigioniero alla figlia che vive in città, una spia probabilmente. Così la flânerie si trasforma improvvisamente in fuga, la veggenza si ritrae nel senso-motorio, la dispersività casuale si converte in azione: da prigioniero a spettatore sino a latitante, oltrepassando il confine tra modernità e classicità. Tre passaggi che articolano dunque la relazione tra visione e conoscenza: l’indagine sui rapporti tra soggettività e sensibilità si dischiude attraverso il suo corpo e la sua interazione con il mondo.
«A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abbietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà» (Orwell 1973, p. 267). Nella parte conclusiva di 1984, George Orwell traccia uno straordinario profilo dell’efficacia della confessione e del suo risvolto soggettivante. “Tu sei”: ecco l’imperativo etico del nuovo totalitarismo del SocIng. Orwell aveva in mente l’Unione Sovietica e il riferimento al regime di Kim Jong-un è una tentazione sin troppo facile. Questa dialettica tra coercizione e spontanea volontà viene però sviluppata anche dai funzionari di Seul, che tracciano per il protagonista una traiettoria etica radicale. Per quanto la violenza disciplinante sia un metodo praticato (sono i momenti in cui confessore e inquisitore si sovrappongono), la forza del discorso delle autorità sudcoreane risiede nella forza silenziosa della seduzione del benessere, nello strascico che la visione insostenibile per le strade della città lascia sul protagonista, nel residuo che lo shock percettivo imprime sul soggetto. Nam rifiuta le lusinghe della società capitalista almeno fintanto che si presentano come tali. Ma non riesce a opporsi alla sua guardia del corpo – l’unico che sin da principio crede alla sua versione dei fatti e si prodiga per la sua liberazione e il suo rimpatrio – quando questi gli offre dei soldi e un regalo per la figlia. Oltrepassato il confine in senso inverso, viene accolto come eroe nazionale nordcoreano e al contempo sottoposto a un secondo ciclo di interrogatori. Nuovamente prigioniero – come del resto sembrano esserlo tutti i personaggi del film, per eccesso di restrizioni o al contrario di libertà – non può disfarsi del segreto che invece ora porta con sé, nelle viscere sue (letteralmente) e della sua barca: la tentazione del peccato lo ha sopraffatto.
Lavorare sui parallelismi non porta sempre a risultati eccelsi. Kim Ki-duk invece conduce sino alle estreme conseguenze la percezione di un’unità coreana oggi scissa da una linea di confine, uno schermo che separa e al contempo riflette. Qual è la dimensione soggettivante della conoscenza dell’altro, sembra chiederci il film, quanto i modi della visione influenzano (e sono influenzati da) le nostre azioni? Attraversando le forme del racconto cinematografico, Il prigioniero coreano mostra le sfaccettature e le contraddizioni del confine come figura specifica del contemporaneo. Una figura spesso intangibile, a volte liquida, che ad ogni modo esercita un’efficacia trasformatrice irreversibile sui soggetti che lo attraversano. Benché girato nel 2016, è forse ironico che in Italia – uno dei Paesi che maggiormente ha fatto della forma dei propri confini un problema politico dirimente – il film sia uscito nelle sale proprio in concomitanza dell’evento che ha forse irrimediabilmente decostruito questa linea tra le due Coree: il saluto mano nella mano di Kim Jong-un e Moon Jae-in, i leader di nord e sud. Possiamo solo augurarci, abbandonando per un istante i territori filmici, che la forza trasformatrice del confine abbia mantenuto la propria efficacia per quest’ultimo attraversamento.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2010.
F. Casetti, La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2017.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1973.