Perché un grande attore, di teatro e di cinema, che si è misurato anche con la regia, che, dunque, ha lasciato traccia del suo passaggio su questo mondo, imprimendo indelebilmente la sua immagine nella memoria collettiva, avverte, al crepuscolo della sua vita, l’esigenza di scrivere un’autobiografia? Forse perché, più in generale, quindi al di là delle molteplici immagini, delle plurime maschere assunte, giace al fondo di una vita, di ogni vita, fosse anche quella del più grande attore di tutti i tempi, fosse anche quella che Al Pacino racconta in Sonny Boy. Un’autobiografia (La nave di Teseo, 2024), l’esigenza di far parlare il più ingenuo desiderio.

Nella sua autobiografia, Al Pacino rivede i suoi ottantaquattro anni di vita. Una vita iniziata nella più estrema povertà nel South Bronx, tra i riverberi della guerra e il pericolo di pregiudizi per le sue origini italiane – «Quando stavo per uscire, mia nonna mi fermava e, alzando lo straccio bagnato che sembrava avere sempre in mano, mi diceva: “Pulisciti quella faccia unta, sennò la gente penserà che sei un italiano”» (ivi, p. 17). Una vita caratterizzata dall’assenza del padre, una mancanza che Pacino cercherà di colmare attraverso gli incontri dei maestri che si porranno come segnavia del suo percorso artistico.

Il cinema insegna – un certo cinema, Quarto potere (1941) di Orson Welles – che i desideri che danno forma a una vita non possono che essere ingenui o, meglio, puerili; e che al di là di un nome che indica un desiderio – “Rosebud” – non è possibile alcuna immagine che possa mostrare, nessun discorso che possa effettivamente chiarire – “no trespassing”, sono le ultime parole di Quarto potere – il vortice di scelte, sofferenze, gioie di una vita. Ma non perché ogni vita abbia un segreto. L’autobiografia di Al Pacino, infatti, è ricca non solo di racconti, ma anche di immagini commentate ironicamente, che sembrano tentare di togliere tutti i veli, tutti i significati nascosti che ci si aspetterebbe dalla vita di una star. Al Pacino lo chiarisce verso la fine dell’autobiografia: «Obiettivamente, non ho mai saputo cosa cazzo stessi facendo. È molto semplice. Non ho fatto che passare da una cosa all’altra. Non imparo mai, e questo è il mio problema. O il mio dono. Sono il primo ad alzare la mano e a dire: “Non lo so”. […] Non sono un filosofo. Sono un attore» (ivi, p. 299). E un attore non può fare altro che esprimersi attraverso i ruoli più disparati che ha la fortuna o la bravura di ottenere, come se ci fosse solo l’esigenza di realizzare un impossibile che sfugge al significato – «Tutta la mia vita è stata la realizzazione dell’impossibile. Questa vita è un sogno, come dice Shakespeare» (ivi, p. 321). Un impossibile che, nel caso di Al Pacino, sembra assumere l’aspetto di un desiderio d’infanzia che la scrittura oggi dovrebbe acciuffare; come se la scrittura si ponesse in quanto forma di espressione in grado di arrestare, anche solo per un attimo, nello spazio di una pagina, lo scorrere di innumerevoli immagini e di maschere indossate che, in realtà, richiamano una dimensione di sogno in cui nessuna immagine, nessuna parola è ancora sorta – come sembra suggerire a Pacino il volto del suo ultimo figlio, Roman, «una tela nuova, fresca, e piena di vita» (ibidem), su cui il mondo non ha impresso ancora nulla, che viene alla luce quando l’attore ha ottantatré anni (cfr. ivi, p. 312).

Il punto di inizio e di arrivo dell’autobiografia è il racconto di aneddoti del Bronx; quasi che per pensare a una vita la cui dimensione più propria è il lavoro attoriale – «Una cosa che spalanca le porte e lascia libero lo spirito. Libero di andare in un mondo dove regna l’immaginazione e dove tutto è scoperta, piacere, estasi» (ivi, p. 310) – non ci fosse altra scelta che tornare ai ricordi d’infanzia.  Perché è innanzitutto il lavoro dell’attore a non essere separabile da uno stato infantile, come una volta ha suggerito inconsapevolmente, da bambina, la sua primogenita, Julie, a cui Al Pacino chiese aiuto per trovare la chiave per interpretare il suo personaggio in Scent of a Woman (1992):

La migliore lezione su come affrontare il mio ruolo forse me la diede una bambina di tre anni. Le dissi: “Fai un gioco con papà e fai finta di essere cieca”. Vidi che prima si formò in testa un’idea di quello che doveva fare, e poi la eseguì. Si era creata un’immagine mentale che le era servita per superare le sue inibizioni e fare qualcosa che non sarebbe venuto in mente a nessuno. […] Perché mia figlia per un attimo era diventata cieca per davvero. È il genio dei bambini, che gli attori cercano di riprodurre in se stessi (ivi, p. 241).

Sembrerebbe che la vita e il lavoro di Pacino siano dunque segnati da un desiderio di infanzia, che si svela al termine dell’autobiografia, quando dichiara che il motivo per cui scrive è il desiderio di «tornare a casa» (ivi, p. 302); di continuare a credere nella vita; a credere nella storia della propria vita come se fosse l’unica realtà possibile – che è poi, alla fine, l’unico consiglio che si sentirebbe di dare a chiunque voglia intraprendere la carriera attoriale: «Credi nella storia che racconti come se stesse succedendo nella realtà» (ivi, p. 300).

Perché è proprio la re-immaginazione della realtà, esercitata attraverso la recitazione nelle messe in scena teatrali e cinematografiche, che si è sempre posta come una via di fuga per Pacino: dall’incontro decisivo, a quindici anni, con Il gabbiano di Čechov, a cui Pacino partecipa nel vecchio Elsmere Theatre in Crotona Parkway, nel Bronx, e che gli cambia la vita, gli dà una direzione, gli dice chi è e cosa potrebbe diventare. Certo, che la recitazione fosse la sua salvezza, Pacino lo aveva forse già intravisto, malgrado se stesso, intorno ai tre o quattro anni, quando la madre portava il suo “Sonny boy” al cinema – «Era questo il soprannome che mi aveva dato prima che tutti cominciassero a chiamarmi così. Lo aveva preso da una nota canzone di Al Jolson» (ivi, p. 11). Solitudine e povertà conducevano il piccolo Sonny boy a fare amicizia con la propria immaginazione (cfr. ibidem), riportando in vita i personaggi che prima aveva visto sullo schermo. Crescendo, la recitazione diviene effettivamente la sua salvezza – più tardi dalla povertà, ma innanzitutto dalla droga, che non risparmiò quasi nessuno tra i suoi fedeli e amati amici d’infanzia – , sperimentandola nelle recite nei piccoli teatri di scuola e, poi, nei ruoli in veri e propri teatri; ruoli ottenuti spesso con molta fatica, alternati ai più disparati lavoretti necessari per prendersi cura di sé stesso e della madre affetta da depressione. La madre, proprio lei che, portandolo al cinema da bambino, senza saperlo gli stava «dando un futuro» (ivi, p. 11), ma che non riuscirà a vedere la via d’uscita dalla povertà – che, come uno spauracchio, rimarrà presente per tutta l’esistenza di Pacino, vista la sua incapacità di gestire adeguatamente il suo patrimonio. Uscita dalla povertà permessa, definitivamente, dal debutto sul grande schermo, i cui successi iniziano con la sua fortunata interpretazione, e secondo lavoro nel mondo del cinema, in Panico a Needle Park (1971) di Jerry Schatzberg.

Mondo del cinema hollywoodiano, a cui Pacino si è sentito sempre estraneo; un posto da cui ha cercato di prendere le distanze – «Preferisco stare alla larga da chi detiene il potere» (ivi, p. 266) –, anche per salvaguardare l’anonimato in cui si è sempre sentito a suo agio, e per allontanarsi dal «dono della celebrità» che non ha mai saputo gestire (ivi, p. 181). Ciononostante, assieme almeno a Robert De Niro e a Dustin Hoffman – «Negli anni settanta Dustin Hoffman, Bob De Niro e io venivamo percepiti come un gruppo di attori intercambiabili» (ivi, p. 252) – è uno degli indimenticabili del cinema americano che, dopo gli anni d’oro di Hollywood con Marlon Brando, ha saputo mettere inauditamente in scena il suo corpo per raccontare la società. Una contraddizione, quindi, stare contemporaneamente dentro e fuori Hollywood, che sovente lo ha «messo al tappeto» (ivi, p. 193), come nel caso di Scarface (1983).

E tuttavia, continuava. Perché non aveva scelta. Tra i diciotto e i diciannove anni, Pacino incontra Charlie Laughton, il maestro – un attore, un poeta – che lo accompagnerà per quasi tutta la sua vita.

Charlie conosceva il mondo e sapeva trarne lezioni che ero in grado di capire e di adattare alla mia vita. Per esempio, mi raccontò la storia dei Wallenda Volanti, una famiglia di equilibristi che si esibiva senza rete ad altezze vertiginose. Salivano uno sulle spalle dell’altro e camminavano sulla corda. Una volta uno di loro disse: “Non ce la posso fare” mentre erano uno sopra l’altro, come una piramide. Caddero. Due morirono, altri si fecero male o rimasero paralizzati. Quelli che si salvarono, dopo un po’ ripresero a esibirsi nello stesso numero. A Wallenda padre, che era il capo, chiesero perché lo facesse. Risposta: «Perché la vita è sul filo. Il resto è attesa» (ivi, p. 52).

Quella del filo è una metafora che ritorna di frequente nel corso dell’autobiografia. Giace, nella vita di Pacino, un’«anarchia di fondo» (ivi, p. 298), che dà contezza di un tentativo infinito di librarsi al di sopra di un mondo, quello hollywoodiano, da lui detestato e che tuttavia ha concorso a rinsaldare. Ma Sonny boy non ha mai avuto altra scelta che fare quello che doveva fare, ossia recitare, anche se, non di rado, è rimasto incagliato tra gli ingranaggi della macchina hollywoodiana, ottusa e spietata. Non aveva altra scelta perché mosso da un desiderio così impellente che decide della propria vita anche quando il corpo assaggia l’esperienza della morte (cfr. ivi, pp. 294-295). Il desiderio di rimanere «in equilibrio su una fune», per spiccare il volo verso quello che si potrebbe chiamare «il paradiso», ma con uno sguardo rivolto sempre verso il basso – «Bisognerebbe imparare dall’imperatore Marco Aurelio: quando la folla lo acclamava, teneva accanto a lui un tizio che gli diceva: “Ricorda, sei solo un uomo”». Il desiderio di sprigionare l’energia che, chiunque faccia arte, come ricorda Pacino raccontando un aneddoto che vede protagonista Picasso (cfr. ivi, p. 297), deve attuare fino alla fine della propria vita, stando attento a non sprecarla. Ma anche il desiderio di lasciare la propria traccia nel mondo attraverso il cinema, «l’impronta della mano sulla caverna» (p. 296). Ossia, la più grande ambizione, come fa dire Jean-Luc Godard a Jean-Pierre Melville in À bout de souffle (1960): “Divenire immortale, e poi morire”.

Al Pacino, Sonny boy. Un’autobiografia, traduzione di Alberto Pezzotta, La nave di Teseo, Milano 2024.

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