L’ultimo libro di Francesco Piccolo, Son qui: m’ammazzi (Einaudi, 2025) è un’ecolalia dei luoghi comuni costruiti da secoli di autonarrazione maschile attraverso vari capolavori della letteratura italiana. La ricostruzione parte dal Decameron di Boccaccio per arrivare fino a Via Gemito di Domenico Starnone, coprendo oltre seicento anni di personaggi, figure e parole che gli autori uomini hanno saputo adoperare, consapevolmente o meno, come uno specchio di genere. Da questa ricognizione, il lettore maschio, non si deve aspettare un percorso «di salvezza, ma di consapevolezza» (Piccolo 2025, p. VII), perché Piccolo segue idealmente le orme critiche di Carla Lonzi, quando diceva: «Noi neghiamo come un’assurdità il mito dell’uomo nuovo» (ivi, p. X).
È indubbio che una certa dose di decostruzione abbia giovato, volente o nolente, a stuzzicare una qualche autocoscienza maschile, seppure come forme di rinculo rispetto alle grandi stagioni del secondo femminismo (di cui Lonzi è un’icona indiscussa). La mitologia dell’uomo moderno, stando all’introduzione di Piccolo, si riferirebbe a quella guaina d’anima bella indossata dai maschi per dissimulare le proprie radici, ben documentate nei secoli dall’autonarrazione letteraria, ultima frontiera della sublimazione intellettual-progressista di uomini che nulla hanno da invidiare ai loro consimili «con la clava» (ivi, p. IX).
Possiamo seguire i protagonisti di molti capisaldi della letteratura italiana e accorgerci di alcuni ritornelli, dell’eterno ritorno di uomini che incarnano tutte le sfaccettature di quella che oggi definiamo mascolinità tossica. Per esempio, «Boccaccio usa il suo talento per realizzare ciò che nella vita non era riuscito a fare: reagire e vendicarsi. In modo sproporzionato, come ha insegnato ai maschi nei secoli a venire, con l’accortezza di definire quella ferocia: una giusta retribuzione» (ivi, p. 12). Tutto ciò che questi scolari, figli, compagni fragili e ossessivi, mafiosi e inetti, tutto ciò che fanno risponde sempre allo stesso e medesimo paradigma.
La forza, quella che per Weil è il motore immobile degli uomini (ivi, p. VI), scorre come linfa che alimenta la violenza. L’Orlando furioso non è né più né meno violento del sensualone e inetto Zeno. O ancora, la caustica vendetta dello scolaro boccaccesco verso l’impudente vedova, non è più o meno grave dell’“eroismo per vigliaccheria” del capitano Della Morte quando simula il proprio amore per la Radegonda (ivi, p. 55). Mentre l’amore del padre per il figlio lo porta a consigliargli di dimenticare Micòl Finzi-Contini (ivi, p. 113), un consiglio spinto da ragioni che non sono molto diverse da quelle che faranno provare amarezza all’Innominato subito dopo aver liberato Lucia.
In entrambi i casi, si tratta di un interrogativo sull’azione compiuta: se abbia o meno fatto ciò che li rende «più uomini» (ivi, p. 33). Gli evirati simbolici infestano tutte queste scene come cloni spettrali dei protagonisti. L’io ideale degli uomini rappresentati si proietta sull’ideale del maschio, che lo vogliano o meno, e questo è un punto di grande interesse per il lettore. L’antologia di Piccolo mostra infatti la persistenza della sostanza al di là delle mutevoli forme, in questo caso letterarie, in cui la maschilità o meglio, l’essere maschi, si manifesta.
Ma è vero che non siamo cambiati? Questo essere maschi mi ha tanto tormentato, con corpi e attitudini inarrivabili, rappresentati sicuramente anche nei romanzi che ho letto, e su questo Piccolo ha ragione. Quell’uomo moderno che voleva sezionare, il mito che volevamo denunciare, parla però un linguaggio che è molto più simile a quello universalizzante della filosofia che quello della letteratura: il problema dell’ermeneutica applicata in questo saggio è il suo timido e forse ingenuo monismo. Quando ho iniziato a fare i conti con il mio lato maschile ho dovuto abbassare le difese, decostruire il mio stesso pregiudizio critico verso questo referente ideale. E andare oltre la decostruzione, andare al di qua, tornare dietro le macerie e i vuoti referenziali.
Credo che la vera modernità verso cui questi personaggi tendono sia piuttosto quindi un superamento della pars destruens. La letteratura, ben inciso, svolge sempre un ruolo anche d’inchiesta, ma aggiunge pure poesia al reale, aggiunge complessità e oggetti identificabili per indicarne tutti i vuoti. I vuoti nascosti dietro la forza, la violenza e le ipercompensazioni virili di questi protagonisti a volte impotenti, come Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, e a volte estremamente solidi.
«Appena il maschio si sente fragile, percepisce la donna come un essere maschile, quindi arrogante, aggressivo, senza freni, che non si cura dei possibili no, ma è sfacciato e pressante. È come se la città fosse coperta da una nube di voluttà maschile, e se si sente un sintomo di diradamento, allora intervengono le donne a supportare la quantità» (ivi, p. 80).
Anche demonizzare il maschio è sempre alludere a un vuoto, rivestirsi della guaina d’anima bella. Non serve un equivalente italiano del principe Myškin per avere un contraltare alla narrativa della mascolinità tossica. Probabilmente al lettore basterà confrontarsi con questi protagonisti per ritrovarcisi in via differenziale, risonare in negativo, e d’altra parte empatizzare con quel fantasma fondamentale che è un’etica per la vita, una forma ideale. Ma questa non è la ricerca del maschio, non è un suo gradiente specifico: anche la risolutezza di Lucia, a differenza di quanto sostiene di Piccolo, è una ricerca attiva dell’assoluto, sebbene sotto le vesti dell’abbandono.
«Dopo essersi difesa dalle molestie di don Rodrigo, qui Lucia riconosce una forza, una potenza che lei non può combattere, e si abbandona. Riconosce la distanza abissale che c’è tra lei e quest’uomo. Lui, l’uomo, rappresenta il potere assoluto, è come se fosse un dio perché può fare di Lucia, la donna, quello che vuole» (ivi, p. 31).
Quello che caratterizza il dramma del maschio, e le storie dei suoi personaggi, è lo scontro coi supposti doveri del proprio corpo specifico, l’anatomia delle sue pulsioni, e il tratto irregolare di ogni loro declinazione. Si tratta insomma di una ricerca esistenziale, una sindrome d’inferiorità rispetto a sé stessi e agli altri, di cui la donna diventa un necessario metro di paragone, interlocutrice imprescindibile per riconoscersi. Ma anche di fronte a questo incontro possibile, che è l’incontro d’amore e di vita, traiettoria simbolica dell’eterosessualità, i maschi di questi romanzi rimangono mutilati dal proprio narcisismo. Come re Astolfo e Iocondo, complici in quella missione di riscatto per il tradimento subito dalle mogli, che consisterà nel vendicarsi sugli altri uomini andando a letto con le loro consorti, mostrandoci due caratteristiche dell’autismo maschile: «L’incapacità di affrontare le proprie mogli (e quindi il proprio dolore), e soprattutto – soprattutto – l’idea che sia una questione tra maschi. Loro pensano al garzone e al nano, non alle donne. Vogliono conquistarne mille per rivalsa contro gli altri uomini. Vogliono, insomma, fare la guerra. Con i modi e i mezzi che possono» (ivi, p. 23).
Il libro di Piccolo dimostra che la letteratura ci può aiutare a fare i conti con le nostre cose tra maschi, può portare la nostra attenzione a molti modi in cui questi maschi si presentano, in cui sono fatti, come agiscono e come pensano, e che può suggerire un senso alle ansie di ognuno. L’importante però è non farne un monologo, né in positivo, identificandosi con dei modelli che sono solo allusivi, né in negativo, cercando di annichilire nella morale comune quel tratto maschile che pur sempre esiste, e che è molto più interessante delle proprie brutalità.
Francesco Piccolo, Son qui: m’ammazzi. I personaggi maschili nella letteratura italiana, Einaudi, Torino 2025.