«I manoscritti di Kafka avrebbero dovuto scomparire; solo poche sue pagine avrebbero dovuto sopravvivere al tempo, alla storia, al XX secolo». Va già dritto al cuore della questione l’incipit di Sconfinamenti, volume collettivo di scritti su Franz Kafka a cura di Luca Salza, uscito in occasione del centenario della scomparsa dello scrittore praghese per Mimesis.

Come tante piccole lettere calamitate attorno a un unico centro, i saggi di questo volume ricompongono un messaggio che però rimane cifrato, un enigma capitale per qualsiasi studioso dell’opera kafkiana. Kafka, com’è noto, vieta categoricamente all’amico Max Brod di pubblicare la propria opera: è letteralmente terrorizzato all’idea che ciò che ha scritto gli sopravviva.  Eppure… Kafka cent’anni dopo: questo il sottotitolo di un libro che intende fare i conti oggi con l’eredità dello scrittore praghese. Un’eredità problematica, proprio perché respinta, non voluta, rinnegata dal suo stesso autore. Un’eredità impossibile e perciò premonitrice di un’opera impossibile, un’opera che senza il tradimento di un amico non avrebbe mai visto la luce.

Sconfinamenti, già a partire dall’emblematico titolo, è la formula che tenta di riassumere le tante impossibilità che attraversano e definiscono la scrittura di Kafka, prime fra tutte l’impossibilità di vivere e l’impossibilità di scrivere, l’impossibilità di lasciare la vita per la scrittura e la scrittura per la vita, che si traduce in una coincidenza tra vita e scrittura ben diversa da quella dei romantici, coincidenza che eccede qualsiasi opera finita possibile.

Sconfinamenti percorre tutte le impossibilità che fanno della scrittura kafkiana una «letteratura di zingari» («l’impossibilità di scrivere tedesco, l’impossibilità di scrivere diversamente, l’impossibilità di non scrivere e quella di scrivere»), sino a congiungersi nell’impossibilità paradigmatica di questa scrittura: divenire opera, farsi letteratura. A che serve una scrittura che si risolve in sé stessa e perciò non si risolve per nulla, non risolve nulla? Una scrittura che sparge sé stessa in briciole: lettere, pagine di diari, aforismi, «scribacchiature»? Che si disperde in romanzi che non dovrebbero vedere la luce nel Romanzo, nella totalità in sé stessa chiusa, nella forma d’arte romantica per eccellenza?

Facendo tesoro della chiave di lettura (politica) di Deleuze e Guattari, i contributi curati da Salza tracciano le tante traiettorie dell’impossibilità in cui si declina una letteratura minore, tentando di restituire, a cent’anni dalla morte, un ritratto inedito di Kafka. Inedito e ancora una volta impossibile: «Le infinite scritture di Kafka» testimoniano infatti «l’impossibilità di essere ridotte a interpretazioni unitarie e univoche».

Ci troviamo di fronte a un Kafka anarchico, come intuisce bene Michael Löwy, in quella che emerge come la pennellata più netta di questo “ritratto” e che traccia nell’antiautoritarismo il movimento che percorre tutti i romanzi di Kafka. Lotta contro ogni autorità: la macchina burocratica impersonale esemplificata dal sinistro apparecchio della colonia penale, lo stato, il padre.  

Lotta contro le tentazioni di tutte le lettere maiuscole, potremmo aggiungere. A partire da quelle di Opera, Autore e Letteratura. Chi voleva far sparire Kafka? L’Opera o l’Autore? Far sparire una non è forse il mezzo per disintegrare l’altro? Cosa doveva rimanere di Kafka, incapace di sopportare – come suggerisce la meravigliosa intervista a Judith Butler che arricchisce il volume – che i suoi scritti gli sopravvivessero proprio come il padre di famiglia si crucciava per Odradek? La scrittura o la letteratura? Non è forse vero che la prima si risolve nella seconda soltanto quando è capace a tutti gli effetti di sopravvivere alla finitezza, di trascendere la singolarità di una vita, di perdurare?  

La preghiera kafkiana di bruciare la propria opera si rivela l’auspicio di esorcizzare col fuoco i fantasmi di qualsiasi lettera maiuscola – è racchiusa forse in questo esorcismo, la cifra di una letteratura minore. Di salvare la scrittura alle pretese della Letteratura. Walter Benjamin vede nelle ultime volontà kafkiane la diretta conseguenza di un’opera che ha fallito il proprio compito: non è riuscita a realizzare la coincidenza tra poesia e dottrina, tra racconto e verità, arte e vita. Un’opera di questo genere non può definirsi Opera. Una letteratura tale non può più dirsi Letteratura, se non a patto di ridisegnare i propri confini (sconfinare appunto), di congedarsi dalla pretesa di rappresentare una promessa di salvezza, dalla speranza di tracciare una via di redenzione per la vita. Questa letteratura si scontra con la sua stessa impossibilità, all’indomani del tramonto di qualsiasi esperienza e narrazione possibile, all’indomani della catastrofe della Grande Guerra. Impossibile da raccontare e allo stesso tempo impossibile da eludere, la guerra si infila nell’universo di Kafka con le sue trincee-tane in cui i soldati muoiono come talpe, con le sue tremende macchine di tortura che «cosificano» e «animalizzano l’uomo».

Kafka è scrittore di guerra, come individua giustamente Salza, pur senza aver combattuto una sola battaglia, senza aver cantato o contestato una sola impresa: «Kafka è il nome di un infinito intrattenimento. Una letteratura senza letteratura, una scrittura interminabile, incessante». La scrittura kafkiana salva dunque sé stessa dalle pretese di universalità. Ma come lo fa? Come si traduce questa scelta più o meno consapevole nello stile, nella lingua di Kafka? Singolare e universale, che già si presentano nell’introduzione del volume, divengono a questo punto poli di una tensione entro cui si dispiega la sua parabola letteraria. Divengono il luogo di un’impossibilità radicale: individuare uno dei due estremi verso cui inclina questa parabola è tutt’altro che facile. È un dilemma.

Kafka non sceglie il singolare. Non adotta un punto di vista soggettivo, situato, una scrittura radicata in un microcosmo preciso: nella storia di un individuo o di un popolo. È vero: le pagine dei diari e delle lettere tradiscono il marchio dell’individualità, sono il meraviglioso esempio di quella coincidenza vita-scrittura di cui parlavamo poc’anzi. Ma che dire dei romanzi e soprattutto dei racconti? La scarnificazione della parola, la penuria di descrizioni pittoresche, di coordinate spazio-temporali che caratterizza questi ultimi li fa assurgere all’universalità proverbiale e impersonale della parabola, all’indefinito della fiaba. Un medico di campagna, un imperatore, un digiunatore, il padre di famiglia sono figure emblema di tutti e di nessuno.

Kafka non solleva in alto il vessillo di un’appartenenza etnica o culturale, rifiuta anzi di sposare la causa di tutti quei singolari che pretendono di divenire Universali. Ecco perché il confronto necessario e problematico con le proprie radici ebraiche non si traduce mai in un’adesione al sionismo e il viaggio in Palestina è solo un’altra impossibilità della sua vita che Alain Brossat qui riesce a inventare, immaginare. Si declina in altri modi l’ebraismo kafkiano: nella predilezione per il teatro yiddish, teatro dei gesti per eccellenza e arte popolare in cui trova espressione una minorità laddove la minorità non è questione di numero, ma «la conflittualità endogena a ogni sistema di maggiorità che definisca delle norme egemoniche», qualsiasi identità ibrida, anti-identitaria che intacca l’Identità, a partire dalla lingua dominante.

Come tradurre quindi con una sola immagine la tensione singolare-universale in cui si gioca l’impossibilità della scrittura di Kafka? Forse propriamente con quel particolare che nella sua scrittura è figura del minuscolo. Figure del minuscolo sono gli animali, i diseredati per eccellenza, gli apolidi, perché l’animale, come osserva Luste Boulbina, «non ha mamma né padre». Oppure quei gesti minimi che, frammentando la pretesa di totalità della rappresentazione, dischiudono la possibilità del teatro minore teorizzato qui da Stephan Harvé. Figura del minuscolo è poi il nano: quella statua del duomo di Verona che affiora soltanto nei diari, ma è per Solla emblema capitale del «viaggio in intensità», ma anche della «vita minima», del deforme, dell’insignificante che attira incessantemente l’interesse di Kafka.

«Piccoli raggi di speranza che si generano dalle figure della vita danneggiata. Ma non sono una speranza di redenzione».

Sono particolari che diventano universali, ma universali in senso diverso da quelli con la lettera maiuscola: Uomo, Bene, Verità, Libertà. La grande statura politica della letteratura di Kafka è colta da questa frase: «In essa, non c’è una sola parola che sia ideologia», piuttosto metafore prive di significato, segni che rimandano solo a segni, cose che richiamano cose, particolari che non si fanno ricondurre a nessun Universale. Particolari che divengono perciò cifra di tutte le minorità possibili, di tutti i senza patria, i migranti, gli oppressi, i disertori, (i figli unici come direbbe Rino Gaetano) e fanno di questi gli appartenenti a una comunità impossibile.

Kafka non brucia la propria opera: deve lasciare la sua scrittura in vita per questa comunità a venire, deve cedere all’impossibilità di essere nient’altro che il futuro scrittore di lingua tedesca, come cita il saggio-racconto di Pierpaolo Ascari che chiude la raccolta.

Passando attraverso quest’impossibilità – l’ultima delle tante – Kafka il vagabondo esce di scena. Ma solo dopo essersi consegnato agli occhi del lettore, per tutto questo tempo, soltanto di spalle. Solo dopo che queste pagine, proprio come una fotocamera che cattura un animale in perenne fuga, un evaso che non trova pace, hanno restituito, in tutta la sua bellezza, l’immagine fuori fuoco di un continuo disertare, un eterno sconfinare

E sconfinare non è soltanto far saltare in aria qualsiasi principio individuationis, rinunciare all’appartenenza ad un determinato “singolare”, ma anche rifiutare quell’ultimo confine che l’Universale pone davanti, nella pretesa di racchiudere ed esaurire tutte le eventualità del possibile, tutte le effettualità del reale.

Via di qua, sempre via di qua.

Luca Salza, a cura di, Sconfinamenti. Kafka cento anni dopo, Mimesis, Milano 2024.

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