
Se penso ad alcune delle pagine più sorprendenti della narrativa italiana degli ultimi anni, mi vengono in mente libri mossi da un intento non propriamente narrativo: testi ancipiti, ibridi, nati da una confusione di temi, forme, generi; una mistione elevata a ontologia, o semplicemente ricondotta alla primordiale, indistinta necessità di scrivere, di dare senso al caos, di affabulare; cioè quel tendere alla favola nel momento in cui ci si confronti con il mondo, che era stato così manifesto in Novalis (alla ricerca di una metafisica), poi in Nietzsche (per cui non c’era più alcuna metafisica ma solo la verità a se stante delle favole, dei “giochi”), per confluire in seguito nell’idea di mito, anzi di mitopoiesi di Heidegger. Insomma, l’attitudine inalienabile non a descrivere le cose, ma a reinventarle, squadernandole, entrandovi dentro per mostrarne, anzi per evocarne la materia nuda, pulsante, sintomo sognante di un altro che sibila tutt’intorno, che è una realtà costantemente bagnata – e così trasfigurata – dal tempo come una delle immagini grondanti, marcescenti di Tarkovskij.
Il suo Stalker (1979) d’altronde è il punto di partenza e l’antifona (prefigurando geografie, soglie) di Sogni e favole di Emanuele Trevi (2019), uno di quegli autori che pratica al meglio questa ibridazione, tra racconto, saggio, autobiografia, al pari di scrittori come Giuseppe Montesano e Michele Mari che hanno fatto dell’ideale colloquio con artisti e opere del passato; della critica letteraria diluita nel racconto (e viceversa); e di una costante propensione metaletteraria i cardini della propria scrittura. Montesano ad esempio aveva gremito Nel corpo di Napoli (1998) con riferimenti a Nietzsche che era il modello principale di Landrò, il protagonista del romanzo, e poi a Trakl, Kleist, Baudelaire ecc.; in seguito richiamati tutti a raccolta (insieme a molti altri) in quel volume monumentale, tra saggi e confessione, frammenti autobiografici e scavo critico, che è Lettori selvaggi (2016); cioè il tentativo di inquadrare il mondo (di “giocare al mondo”) attraverso le vite, quasi sempre lacerate, trascinate, e le creazioni degli artisti nel tempo. Che era già stato lo spunto di Michele Mari ne I demoni e la pasta sfoglia (2004), una serie di saggi su cui però incombeva l’ombra del racconto, di quella narrazione propria di Mari, concentrata a conferire spessore metafisico alle cose, che a sua volta porta sempre inscritta in sé la tentazione della critica, ora tutta concentrata sulle ossessioni degli autori, le loro nevrosi cristallizzate in opere piene di ossessi, fantasie, baratri, che si tratti di Cortázar (peraltro un po’ svilito), Landolfi, o dei Pink Floyd.
Sogni e favole non sfugge a questa osmosi tra racconto e critica, autobiografia e finzione, che genera un romanzo “annotato”, un diario che si sedimenta richiamando frammenti letterari del passato, figure di scrittori, poeti, scenari, con aperture saggistiche anche minuziose se si pensa alle pagine riprese da un saggio di Cesare Galimberti, esegeta di Metastasio, di quel sonetto da cui il libro di Trevi prende il titolo: «Sogni, e favole io fingo; e pure in carte/ mentre favole, e sogni orno, e disegno,/ in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,/ che del mal che inventai piango, e mi sdegno […]» (Metastasio, Sogni e favole io fingo, XVIII sec.). È l’esergo intorno a cui prende forma l’intera erranza e rimembranza di Trevi, e che incarna e rivela un aspetto preminente della sua scrittura: la riflessione metaletteraria, quindi andando alla radice del “problema”, mostrando l’impossibilità, quando si scrive e si pensa, di emanciparsi dai referenti, cioè, principalmente, dai segni che loro hanno lasciato, tracce di tutto un simbolico che è veritiero proprio nella sua congruente, densa inestricabilità.
È nel senso del segno che si libera la verità, nella carne del segno, che è anche il senso ultimo (la verità) dell’essere: il che dice una volta di più che non si può che scrivere delle ragioni dello scrivere, sulle ragioni dei segni, del segnificare, favoleggiare. E allora nel mezzo di questa confessione che è Sogni e favole – con punte di esistenzialismo espresso da analogie nude e da figurazioni come «te ne stai lì, riempendo il tuo cucchiaio di uno sciroppo di tenebre appiccicose», e similitudini con «gli occhi puntati sullo schermo disertato dalle immagini, opaco e indifferente come una superficie di sabbia compatta dopo il calare della marea», ecc. – il segno, la parola, mentre si fa, si snoda in quanto confessione, non può che tornare al motivo stesso del proprio essere, del proprio farsi, e ai suoi favolosi fautori, a coloro per mezzo dei quali il segno è stato: Metastasio, Amelia Rosselli, Cesare Garboli, Arturo Patten e ciò che hanno scritto o impresso, segnato sulla pellicola.

Trevi si trova a girovagare per una Roma gelida e piovosa alla fine di dicembre del 2017: nel deliquio della stanchezza come un Rimbaud aux semelles de vent, passa da Via dei Cappellari, dov’era nato Metastasio; alla Chiesa Nuova in cui si apre il sipario sulla Madonna della Vallicella di Rubens; al colonnato di Santa Maria della Pace, luogo del primo incontro con Garboli; e a poca distanza da lì, casa di Amelia Rosselli. Un perimetro profondamente significante, mitopoietico, dettagliato quanto, mettiamo, la topografia parigina di Modiano, che però sembra avere uno scopo inverso a quella romana di Trevi, se è vero che il dettaglio eccessivamente, ossessivamente minuzioso delle strade, delle fermate della metro, dei caffè di Parigi tende come a diserbarsi, a spogliarsi di simbolo, alludendo a un vuoto inerme, atono, in cui sciogliersi, perdersi. Mentre i luoghi di Trevi si muovono, si trasfigurano, transitano a qualcos’altro, per giunta gremiti di fantasmi, come le ombre baluginanti sullo schermo di un cineforum agli inizi degli anni ottanta. Sono segni in transito verso il favoloso, che mostrano la loro alterità, la loro alterazione in favola (quella a cui allude Metastasio): finzione.
Le chiese barocche romane, le strade adiacenti alle piazze, i portoni e i ristoranti aggricciati dai piovaschi, appaiono attraverso un filtro di luce, di umori, suoni, che sono il presagio del loro stesso, presente sussistere: «Gli spazi, gli edifici, le prospettive acquistano all’improvviso una pienezza di dimensioni, un equilibrio di volumi e contorni, una tensione come di vela spiegata. La bellezza latente si manifesta in una specie di fioritura fuori stagione». Qualcosa che porta i segni di un altrove, di un’altra stagione, un altro tempo: qualcosa come il barocco romano.
La scrittura di Trevi è allora una scrittura sui luoghi, su una ricerca intima – che poi assurge a dimensione teorica – dei panorami, degli scorci, di quella zona entro cui incontra lo stalker Arturo Patten, coprotagonista del libro. Cercando di risalire alle ragioni dello scrivere Trevi giunge a spazi topici, o viceversa, forse la ricerca parte da questi spazi: i luoghi sono segni (Pasolini li chiamava im-segni), attivano un meccanismo simboleggiante, scenografico; e dentro vi vagano come spettri dotati di notevole concretezza (quella conferita magari dalle foto di uno di loro, Patten, e dalla sua «profonda, esaltante, rischiosa intimità e compromissione con l’umano»), coloro senza cui quegli spazi non sarebbero esistiti nell’immaginario dello scrittore: il colonnato di Santa Maria della Pace allora non ha la fissità inane di “bene culturale”, ma è «favola teatrale» immaginata e allestita da Pietro da Cortona; sommovimento, interazione misteriosa delle linee, dei volumi, e sineddoche di tutta una vita «che non potrò mai comprendere, ma che è governata da una regia infallibile, dotata di una sua segreta lungimiranza».
E allora da un luogo si scivola in un altro, da Roma a Parigi, alla Sicilia: le sale della Biblioteca Nazionale, «pervase di luce e silenzio, suggerivano la possibilità di un’esistenza quieta, laboriosa, ispirata dai fantasmi di epoche remote – pallide luci che tremano da lontananze inconcepibili»; la casa in cui Garboli aveva trascorso l’infanzia, a Vado di Camaiore, «quel teatro i cui ingredienti erano il tempo e l’immobilità delle cose»; il cineforum, in cui respirare la polvere del tempo, la traspirazione dei fantasmi traslucidi sullo schermo; fino a un albergo anonimo in Sicilia in cui ci si può impiccare.
Sono im-segni nel senso che vengono immaginati più che vissuti: luoghi inventati, i cui argini basculano, si muovono come nella zona tarkovskiana, assumendo ogni volta nuova carne di simbolo. Finzioni allora, che si affermano in quanto verità tramite il peso, l’ingombro – e allo stesso tempo l’evanescenza – della materia di cui sono fatte; tutta una semantica, o come direbbe Benjamin, una dialettica, che trepida, scintilla, marcisce, e rappresenta così l’unica via, l’unico senso possibile: quello creato dal «fingitore assoluto, colui che finge in maniera così completa che “arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente” [Pessoa]» (Trevi 2019).

Riferimenti bibliografici
M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Quiritta, Roma 2004.
G. Montesano, Nel corpo di Napoli, Mondadori, Milano 1998.
E. Trevi, Sogni e favole, Ponte alle Grazie, Firenze 2019.