di FABIO DOMENICO PALUMBO
Deleuze e la psicologia di Maria Nichterlein e John R. Morss.
L’intuizione foucaultiana sulla cifra deleuziana propria del XX secolo sembra esser stata presa con la dovuta serietà solo in ambiente anglosassone, a parte qualche rara eccezione. In effetti, scarsa eco è giunta in traduzione sui nostri lidi del poderoso lavoro critico esercitatosi sulle più disparate intersezioni tra il pensiero di Gilles Deleuze e i diversi ambiti della conoscenza. In particolare, nonostante le meritorie incursioni di Slavoj Žižek, ben poco presente nel dibattito filosofico italiano è il rapporto tra Deleuze e il sapere scientifico, esplorato brillantemente da studiosi come Manuel DeLanda, John Marks e James Williams. Nel confronto tra Deleuze e la scienza, poco frequentate persino nel mondo anglosassone sono state però le scienze della mente o scienze cognitive, locuzioni che sono il nome della psicologia ai tempi dell’affermazione del paradigma cognitivista e neuro-scientifico.
Come noto, una speciale attenzione è stata da sempre dedicata, a livello mondiale, al travagliato incontro tra Deleuze e la psicoanalisi, groviglio teorico per cui ci limitiamo a segnalare i recenti Deleuze et la psychanalyse (David-Ménard 2005), Deleuze and Psychoanalysis (Hallward 2010) e The Psychoanalysis of Sense (Collett 2016). Tuttavia, l’ambito della psicologia va oltre quello della psicoanalisi, includendo, oltre a quest’ultima, anche le psicoterapie, sul versante clinico, oltre a domini come la psicologia generale, la psicologia sociale e la psicologia evolutiva. A colmare questo vuoto interviene una pubblicazione dell’editore Routledge ad opera di due autori australiani, di formazione psicologica e giuridica, ma con una solida preparazione filosofica: si tratta di Deleuze and Psychology (2017), di Maria Nichterlein e John R. Morss, prontamente pubblicato da Raffaello Cortina nello stesso 2017 col mimetico titolo Deleuze e la psicologia.
La cornice generale del discorso degli autori è l’affinità tra la psicoterapia sistemica, in particolare quella derivata dalla lezione di Gregory Bateson, e l’itinerario filosofico di Deleuze, prima e dopo l’incontro con Félix Guattari. Fondamentalmente, Nichterlein e Morss chiamano in campo gli autori di Mille piani, e segnatamente Deleuze, «in forma di slogan: non l’individuo, ma un concatenamento; non il soggetto, ma la vitalità» (Nichterlein, Morss 2017, p. 49). Come evidenziato da Pietro Barbetta ed Enrico Valtellina nell’introduzione all’edizione italiana, lo sforzo teorico degli autori australiani consiste nell’individuare delle «sinergie tra il pensiero ecologico batesoniano e le strumentazioni concettuali deleuziane» (ivi, p. XI), rimettendo al centro della riflessione psicologica la relazione, l’evento, il processo, i concatenamenti (agancements), ridotti dal paradigma cognitivista a una conoscenza routinaria, prevedibile, reificata. C’è da dire che un simile tentativo mette da parte le divergenze tra l’approccio di Bateson e le riflessioni di Deleuze e Guattari su temi come l’incidenza del double bind sulla schizofrenia. Ad ogni modo, è contro la cristallizzazione e lo schematismo del sapere psicologico, contro la sclerotizzazione delle immagini del pensiero, che la filosofia di Deleuze può fungere da martello nietzschiano, aprendo prospetticamente delle linee di fuga all’interno del discorso dominante, scatenando delle forze centrifughe e avviando delle deterritorializzazioni.
Come alleati teorici di Deleuze, Guattari e Bateson nel tentativo di innesco di un cambio di paradigma in psicologia, nel testo sono convocati, in linea con un’impostazione affine alla filosofia della scienza e alla teoria della complessità, Humberto Maturana e Francisco Varela. Ciò che viene auspicato da Nichterlein e Morss è un superamento del concetto di scienza dell’informazione a vantaggio della nozione di perturbazione. L’introduzione nel metodo delle perturbazioni ambientali recupera il carattere ecologico ed autopoietico del sistema organismo/ambiente. Ma è proprio nel discorso sistemico che ritroviamo ancora una volta l’impronta deleuziana (e batesoniana): si tratta però non solo di far virare la ricerca dai sistemi chiusi ai sistemi aperti (ivi, p. 65), ma di riconnettere l’indagine psicologica alla vita, al piano d’immanenza, a quel pensiero viscerale il cui linguaggio è «modellato nella profondità dei corpi» (Deleuze 2009, p. 80).
La struttura di Deleuze e la psicologia gioca su più livelli: la prima parte fornisce un’introduzione, necessariamente non esaustiva, alle principali costellazioni teoriche deleuziane, privilegiando ovviamente quelle utili alla discussione critica del paradigma vigente in psicologia. In qualche modo Nichterlein e Morss propongono una loro versione dell’apprendistato filosofico di Deleuze già esposto da Michael Hardt, individuando, non senza ragione, nella triade Spinoza-Nietzsche-Bergson la trinità filosofica cui ricondurre l’immanentismo e il vitalismo deleuziani. L’inquadramento genealogico del pensiero di Deleuze, oltre a marcarlo come pensatore della differenza contro l’ipostatizzazione (di ascendenza platonica) del fondamento e dell’identità, permette agli autori di chiamarlo in causa su tre piani: a livello di ripensamento critico della psicoanalisi, nella riconsiderazione dell’oggetto di indagine della psicologia, e nella ridefinizione del metodo empirico in psicologia.
Scarsamente originale, in verità, risulta la trattazione della critica anedipica al modello familistico della psicoanalisi freudo-lacaniana, critica articolata da Deleuze e Guattari nel celeberrimo testo del 1972, L’anti-Edipo, prima parte di Capitalismo e schizophrenia. Nichterlein e Morss inquadrano correttamente il discorso schizoanalitico: la psicoanalisi non avrebbe portato a compimento le proprie premesse teoriche, riducendo l’inconscio nei ristretti confini del “romanzo familiare” e mettendolo in scena come uno “spettacolo teatrale”. L’inconscio anti-edipico non va a teatro, non è né amletico né sofocleo, è piuttosto fabbrica, produzione, macchina desiderante. Di conseguenza, la schizoanalisi — da non intendersi come “elogio della follia”, bensì come sperimentazione incessante della potenza creativa dell’inconscio — non fa distendere l’analizzante sul divano, ma lo porta a passeggio nel parco, in uno scambio espressivo con l’ambiente, alle prese con la contingenza dell’evento e con l’imprevedibilità dell’incontro. Un tale metodo empirico, ben diverso dall’empirismo timido della psicologia, richiede un’immersione nelle cose, un approccio totalmente immanente (in senso spinoziano), al di qua di ogni opzione trascendentale, di qualsiasi schermatura rappresentazionale. L’esposizione alla vita è esposizione alla differenza, all’eterno ritorno del differentemente differente, all’indecidibilità del lancio di dadi.
Gli autori vedono in Deleuze la possibilità di proporre una metafisica pura che non sia in contraddizione con l’empirismo. In qualche modo Deleuze si smarca dall’eredità di Kant, pur centrale nel suo apprendistato, e questo gli permette di fare i conti con la fenomenologia husserliana: la sintesi, come aveva intuito la psicoanalisi, avviene a livello inconscio: «La coscienza è così posta come mero effetto, il residuo del funzionamento di macchine desideranti (inconsce)» (Nichterlein, Morss 2017, p. 30). Al pari della coscienza, neanche il linguaggio, nel senso della struttura, può fungere da schermo rappresentazionale o informazionale di fronte al flusso della vita: il divenire prima della struttura. In altri termini, il chaos è sempre immanente al cosmos: l’ordine della struttura è un movimento di territorializzazione cui farà seguito una nuova deterritorializzazione. Siamo dunque immersi nel chaosmos, e i buchi nella trama dell’immagine del mondo ci connettono col Reale impossibile: la filosofia, l’arte, la scienza sono altrettante smagliature nelle calze delle rappresentazioni, svelamenti che ci mettono in contatto con lembi di chaos. L’esperienza vivificante dell’immersione nel Reale non può essere ovviamente costante: bisogna tornare a galla e prendere aria, il buon senso e il senso comune vanno dunque tollerati nel quotidiano. Tuttavia, la possibilità di fare esperienze rivitalizzanti, e, sul piano scientifico, di ripensare i paradigmi, anche quello psicologico, è affidata da Deleuze, e dagli stessi Nichterlein e Morss, alla pratica del chaosmos, alla frequentazione del piano d’immanenza, alla contingenza dell’incontro tra scienza e caos: «La scienza darebbe tutta l’unità razionale alla quale aspira in cambio di una particella di caos da esplorare» (Deleuze, Guattari 2002, p. 208). L’insistenza di Nichterlein e Morss sul momento anti-edipico sottovaluta però il rilievo del tratto post-strutturalista in Deleuze, il ruolo del linguaggio accanto al divenire, del simbolico oltre al Reale, e, soprattutto, svaluta il nonsense alla maniera di Lewis Carroll rispetto a quello artaudiano, la creatività della perversione a fronte di quella schizofrenica, fraintendendo, a mio avviso, il messaggio di Logica del senso.
Torniamo però all’idea-cardine di Deleuze e la psicologia. Frequentare il chaosmos significa affidarsi a un pensiero nomade, al vagabondaggio in seno a sistemi dinamici aperti, sulla scia dei lavori di Bateson sulla cibernetica, non distanti invero dall’idea deleuziana di scienza. In effetti il concatenamento proposto da Deleuze e Guattari ripensa ciberneticamente l’idea di macchina come un tutto funzionante al di là dei dualismi mente/corpo, uomo/macchina, individuo/contesto (Nichterlein, Morss 2017, p. 53). Come detto pocanzi, la transizione dall’individuo al concatenamento si accompagna al passaggio dall’enfasi sulla soggettività alla riscoperta del dominio della vita. Deleuze e Guattari ammettono che per non bruciarsi al fuoco del chaos sia necessario «conservare piccole razioni di soggettività» (Deleuze, Guattari 2010, p. 216). Si tratta di fare concessioni alla realtà dominante, alla cosiddetta scienza regale, alle necessità burocratiche, alle significatività statistiche che dominano le scienze naturali e umane (inclusa, ovviamente, la psicologia), a patto di esercitare, surrettiziamente e approfittando delle falle del sistema, la scienza minore, l’unica capace di attuare le rivoluzioni paradigmatiche à la Kuhn.
Il passaggio dal recinto della rappresentazione, dal cortocircuito del rispecchiamento soggetto-oggetto, alla sperimentazione vitale sul piano dell’immanenza coincide con un ripensamento dell’empirismo: o, meglio, con un passaggio da un empirismo superficiale, per cui la situazione è pensata attraverso il filtro del soggetto, a un paradigma secondo cui bisogna imparare a costituire il soggetto nel dato. È questa la lezione che Deleuze apprende da Hume, accreditandosi come pensatore empirista radicale, profondo (deep empiricism), quasi brutale, sulla scorta di Whitehead. C’è una sorta di innocenza in questa preponderanza dell’incontro sul riconoscimento, della concatenazione sul rispecchiamento. Secondo Nichterlein e Morss l’immanentismo deleuziano è insieme casualistico e materialistico, è un’apertura sul sistema-vita dall’interno del sistema stesso. Non c’è naturalmente spazio per la trascendenza o per lenti trascendentali che consentano di mettersi al riparo dall’invischiamento col Reale. In questo senso, il campo infinito del virtuale è da intendersi sempre in relazione con l’attuale. Non c’è possibilità alcuna di un residuo di platonismo, di una modellizzazione della materia sull’idea, di un resto di razionalismo in seno all’empirismo: il divenire empirici è una pratica della relazione che sovverte il primato della forma a vantaggio del concatenamento immanente. La pratica della differenza, l’esperienza trasformativa dei divenire (ad esempio il divenire-animale dell’Uomo dei lupi), trova una sua stabilità temporanea esclusivamente nell’associazione, nell’abitudine, nella ripetizione. Differenza e ripetizione, dunque, come nel titolo del saggio seminale del 1968. Differenza e ripetizione, come insegna David Hume: l’insorgere degli oggetti e della coscienza è esclusivamente frutto di sintesi inconsce, di associazioni abitudinarie. Il soggetto nasce solo dall’esperienza della relazione. L’esperienza, dunque, non l’esperimento: la scienza non può legittimamente proporsi come tentativo di padroneggiare il mondo naturale, ma piuttosto come insorgenza della vita stessa. Le soggettività, i dati, le sintesi coscienti e le rappresentazioni sono epifenomeni, eventi-effetti emergenziali delle concatenazioni macchiniche, degli assemblaggi dei corpi e dei pensieri, dell’inconscio del pensiero e dell’universo brulicante delle differenze.
Nell’ultima parte del libro, la pars destruens rispetto all’approccio corrente in psicologia lascia spazio, in linea con il carattere affermativo del pensiero deleuziano, alla proposta di un cambio di paradigma in ambito etico-politico e clinico sulla scorta della nozione di concatenamento come «costruzione di territori» (Nichterlein, Morss 2017, p. 121). Sono qui inserite alcune interessanti considerazioni sul nesso tra etologia e trasformazione della considerazione del vivente, tra il divenire-animale deleuziano e una nuova teoria ecologica dei sistemi aperti. Nel sistema dei concatenamenti territoriali, si diventa animali per poi diventare altro, assecondando la logica del “sia… sia”: si diventa uomo, bambina, lupo, paesaggio, etc. Prima viene la fluidità del contesto, poi la cristallizzazione in una specifica forma animale. I concatenamenti non sono contenuti negli individui, ma li attraversano (ivi, p. 124). Su questa base, alla soggettività docile della massa, addomesticata anche ad opera del complesso-psy, delle discipline psicologiche intese come dispositivi di potere, Deleuze e Guattari oppongono l’approccio critico-clinico dei concatenamenti, della variazione nella relazione e della costruzione di una vita. A tal fine, entra in gioco un doppio movimento, di creazione dello spazio striato (territorializzazione) e dello spazio liscio (deterritorializzazione): ripetizione e differenza, nessi associativi e trasformazione, coagulazione e scioglimento. La messa in moto del divenire, anzi dei divenire, può trasformare la clinica in un impegno più serrato nei confronti della vita, come richiesto dalla stessa schizoanalisi. Si tratta, in ultima istanza, di opporre al complesso-psy come strumento della governamentalità un’idea di clinica affine al funzionamento produttivo dei concatenamenti.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2009.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
M. Nichterlein, J.R. Morss, Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017.
Ottima recensione! Grazie! Pietro Barbetta