Se c’è una corrente che percorre il moderno è paradossalmente la sopravvivenza dell’antico. Si tratta di un ritorno delle immagini mitiche, degli archetipi che fondano l’Occidente, e che provengono anche da una riscoperta dell’Oriente e del primitivo, che trascorre non solo nella filosofia, nella psicoanalisi e nella antropologia del Novecento (da Frazer a Kerenyi, da Graves a Eliade, da Jung a Corbin, da Macchiorio a De Martino, da Levi-Strauss a Hillmann, da Detienne a Vernant), ma che illumina anche la forma-romanzo e le arti visive. Opere letterarie fondative del tardo Novecento ne sono una potente testimonianza.
La questione epico-avventurosa e omerica attraversa il microcosmo urbano della Dublino dell’Ulisse. Il sostrato rituale del Graal e le radici della misteriosofia tardoantica costituiscono l’intelaiatura sia di The Waste Land di Eliot che dei Cantos di Pound. L’andamento misterico del romanzo antico (il Satyricon petroniano) incontra i brandelli della mutazione antropologica della contemporaneità nel Petrolio pasoliniano. E nell’arte moderna (pittura, cinema, teatro) l’elemento orfico-dionisiaco, le suggestioni primitivistiche e pagane, la “distorsione” del classicismo, spaziano da Apollinaire a Picasso, da Cocteau a De Chirico. Tutto ciò viene poi resuscitato ed elaborato in sede di filosofia delle immagini, di riflessione sul gesto iconico e sul movimento della “forma di pathos” da Aby Warburg.
Tutto intero questo orizzonte torna in mente in un trasparire dissimulato da una cronometrica e allucinatoria compagine scenica assistendo a uno degli spettacoli più intensi di Anagoor (compagnia fondata nel 2000 da Simone Derai e Paola Dallan, che nel 2018 ha vinto il Leone d’argento alla Biennale Teatro e che in queste settimane è in giro per l’Italia con vari lavori), Socrate, il sopravvissuto/Come le foglie. Uno spettacolo (visto al Teatro Politeama a Napoli per la stagione del TAN, Teatri Associati Napoli) che risalta per una precisione mentale, la quale si attaglia al corpo e alla sua temporalità, alla densa durata e alla implacabile e paradossale evidenza, trasparenza ermetica, riversata nella ostensione scenica, in cui immagine e parola vanno di pari passo e si danno la mano con una mirabile resa immaginativa.
Molti altri lavori di Anagoor (da Virgilio brucia a Lingua Imperii, a Orestea. Agamennone, Schiavi, Conversio), operano un affondo nel sostrato antico e mitologico dell’Occidente, rifigurandone la lingua misterica, ripercorrendone posture e apparizioni, echi e maschere, oggetti rituali e risonanze gestuali, e al contempo mettendole in cortocircuito con le radici del Moderno e con le intensità del contemporaneo. Radici e intensità che non possono non mettere in campo le emergenze fatte di eccidi, guerre, olocausti, violenze, stermini, e insieme quella infosfera memoriale, quella nebulosa iconica che mescola come in un rigurgito il primordiale e il futuribile, scomponendo la sillabazione profetica di una specie di universo distopico, della “compossibilità” di ciò che, in epoca quantistica, è stato definito come “multiverso”.
Nel composito titolo dello spettacolo sono come incisi tre riferimenti o allusioni: la morte di Socrate così come il dialogo platonico l’ha drammatizzata; il titolo di un romanzo di Antonio Scurati (già Premio Campiello nel 2005) ambientato nel cruciale e apocalittico anno domini 2001 e ispirato al massacro di Colombine, che chiude simbolicamente il XX secolo; una, forse più indecifrabile, allusione al titolo di un melò intimista (storia generazionale di uno sventato suicidio giovanile) di Giacosa, datato 1900, che potrebbe rimandare ironicamente alle foglie di Sibilla, foglie oracolari come segnacolo del tempo profetico che si disseminavano al vento mentre (come si dice nel Satyricon) la profetessa cumana sussurrava “Desidero morire”.
E qui si tratta proprio dell’idea di un viatico temporale alle porte dell’Ade, dell’incombere della morte, ma anche il senso infra-temporale dell’eternità, dell’agonia intesa come agon o arena drammatica del conflitto, dell’impulso suicidario e dello stato del sopravissuto alla carneficina (siamo tutti nei nostri tempi “sopravviventi” a un continuo impulso alla strage); ma anche della survivance dell’immagine, del suo rifluire e defluire attraverso il tempo, dell’incedere maieutico del Sophos (qui l’insegnante di filosofia che Scurati immagina essere l’unico sopravvissuto alla strage perpetrata dallo studente ventenne presentatosi in ritardo agli esami), di un Socrate che, mentre si congeda dai discepoli, continua a rendere “sopravvivente” la parola filosofica, il sapere come scrigno di Mnemosine. Ebbene sono queste idee-immagini a stagliarsi sulla scena di Anagoor che ci appare come un campo di forze, una lavagna drammaturgica non a caso dominata da uno schermo su cui si dipanerà un riflesso filmato e didatticamente o ritualmente “esposto”, come una apertura visionaria, una epopteia misterica.
Anagoor ha una storia singolare: nasce come un collettivo “pedagogico” tra i giovani di un liceo a Castelfranco Veneto dove la pratica artistica, performativa, ipermediale e filosofica si intrecciano laboratorialmente dando luogo a tessuti drammaturgici in cui il lavoro sullo spazio e sul tempo, sull’ambiente e sulla durata, diventa essenziale. Questo lavoro procede alla crescita coscienziale e artistica dei giovani che fabbricano in modo concettuale e artigianale gli spettacoli, ogni volta percorrendo orizzontalmente saperi ed epoche, con predilezione per il mito e l’antico, posto in stato di sopravvivenza immaginale dentro il contemporaneo.
La scena spoglia dunque è una classe, con i banchi e le sedie di legno da vecchia scuola, dove sono disciplinatamente seduti i ragazzi e le ragazze (salvo a scivolare lentissimamente, come attratti e risucchiati dal pavimento, in una inquietante gravitazione di cui sembra essere pervaso tutto lo spazio). Accanto solo un microfono dove in modo asettico e sibillino vengono snocciolati dall’insegnante i dati sterilizzati e asettici dei genocidi di fine millennio. Il sapere viene faticosamente trascinato in scena dai ragazzi nel suo stato a brandelli, nella sua evaporazione ineffettuale, come alluvionato o preda di un incendio da Biblioteca di Alessandria, sotto forma di volumi accartocciati e disfatti che si accumulano via via. Finché i giovani corpi sono a loro volta trascinati in una danza asimmetrica e mentale che riprende le “danze pitagoriche” di un mistagogo orientale come George Gurdjieff (il quale invitava gli adepti a muovere i passi simbolici di danza eseguendo mentalmente complesse operazioni matematiche).
Quindi ecco rivelarsi lo squarcio filmato del dialogo platonico del Fedone sotto forma di pantomima misterica con i volti coperti da maschere antiche che emergono come dai detriti della storia nella visione dall’alto ripresa da un drone, che cosmicamente restituisce la pelle del pianeta come un paesaggio primordiale di acque fluviali e di rughe di terra. In questo squarcio è come se l’universo mediale ridivenisse lo sphairos empedocleo, in una visione magico-sciamanica che induce a ricordare come Marshal Mc Luhan, in una lettera del 1954 a Walter J. Ong (che si trova nel suo La luce e il mezzo), e ripensando a un saggio come Time and western man di Wyndham Lewis, fosse affascinato dalle ricadute esoteriche che percorrono nel XX secolo la “galassia Gutenberg” e il transito dell’“uomo tipografico”, destinato a mutarsi in “uomo digitale” oggi, in una globalità infosferica pervasa da quella che Hillmann chiama “intossicazione ermetica” (un mondo dove le “tracce della sapienza” si sottraggono nella “rete” a una etica dei saperi):
A chi sappia unire rivelazione mistica e conoscenza sensoriale, il mondo, visibile e invisibile, si rivela espressione di un centro unico, immenso organismo vibrante di coscienza, ma a livelli diversi di compiutezza, in ogni cellula. “Tutte le cose attraversa conoscenza” (Tonelli 2009, p. 76).
Questo insegnamento empedocleo, il rifluire mitico della sopravvivenza del sapere, ha bisogno di un varco sapienziale, come già il Fedone, citato dallo spettacolo, indica, e cioè di una “rifondazione etica della contemporaneità”. Una sorta di addestramento alla visione che ci fa scorgere in trasparenza la sopravvivenza delle immagini come riflessi esterni e fisicizzati del conoscere interno e mentale. Appunto questa estroflessione sensoriale di un apprendistato e di un apprendimento interiore è ciò che si misura e si espande in questo spettacolo, vera e propria performance sapienziale, e nel suo incedere scenico.
Riferimenti bibliografici
S. De Min, Decapitare la Gorgone: ostensione dell’immagine e della parola nel teatro di Anagoor, Titivillus, Corazzano 2016.
M. Mc Luhan, La luce e il mezzo. Riflessioni sulla religione, Armando, Roma 2002.
A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, Moretti e Vitali, Bergamo 2009.
* In anteprima e in copertina una foto di Giulio Favotto.