Oggi più di ieri serve rileggere Ralph Waldo Emerson, che è stato tra i Trascendentalisti quello che ha saputo pensare e dire meglio che cos’è stata ed è l’America. Che è stata ben altra cosa rispetto a quella di Trump. Ridurre l’America a Trump è un grande errore. A certe condizioni uomini e nazioni possono esprimere il loro lato peggiore. È ciò che sta accadendo ora. E le condizioni oggi sembrano essere quelle per cui a livello globale uso ed esposizione della forza si sono emancipate perfino dal perseguimento degli interessi reali. Dimensione comunicativa e spettacolare hanno assorbito totalmente il reale della forza, che viene esposto e teatralizzato anche in assenza di fini propagandistici. Tale esposizione rifugge ogni mediazione simbolica. Un tratto attoriale e buffonescamente nero accompagna tale esposizione. Il simbolico è oramai ridotto allo spazio residuale del burocratico e del normativo.

Non era così nell’America di Emerson, la cui grandezza possiamo ritrovare nel recente bel volume Società e solitudine, a cura di Nadia Urbinati, pubblicato da Orthotes. Nel saggio che dà titolo alla raccolta vediamo riassunto il succo del problema dell’America e dell’uomo occidentale: cioè il rapporto tra individuo e società, singolo e collettivo.

Tale rapporto, declinabile in forme molteplici, in America ha preso questo aspetto. La democrazia è sì uguaglianza, ma animata da uno spirito di emulazione, da una volontà di eccellere che «induce gli uomini ad amare il genere umano e a godere della compagnia dei loro simili» (Arendt 2009, p. 129). Questa volontà ha alimentato l’individualizzazione americana, che non ha nulla a che vedere con il banale individualismo, ma con qualcosa di più profondo, con l’idea dell’unicità con cui si esprime il genio sia di uomini eccezionali che di uomini ordinari. La costituzione di un uomo di genio porta con sé anche la sua condizione isolata e perfino misantropica:

Per la cultura del mondo un Archimede, un Newton sono indispensabili; e così la natura li protegge con una certa aridità. Se fossero state persone simpatiche, appassionate alla danza, al porto e alla vita dei club, non avremmo avuto né la teoria della sfera né i Principia. Avevano quel bisogno di isolamento avvertito dai geni. Ognuno di loro deve restare sul suo tripode di vetro, se vuole conservare la propria energia (Emerson 2025, p. 45).

È come se l’individuazione del carattere passasse attraverso la presenza di un daimon che lo segna e lo mette comunque, anche nella sua vita quotidiana, in una condizione che sospende – in un modo o nell’altro – la relazionalità sociale: «Ancora più tragico è il fatto che nessun uomo di grande finezza sia adatto al vivere in società. Da lontano lo si ammira, ma fatelo stare gomito a gomito con gli altri e diventa un invalido. L’uno si protegge con la solitudine, l’altro con la cortesia, l’altro ancora con modi spicci o acidi – ognuno nasconde come meglio può la propria vulnerabilità e l’incapacità di vivere rapporti di grande vicinanza» (ivi, p. 46).

Ma basta questo? Basta dire che una certa finezza d’animo del genio o dell’uomo comune conduce alla solitudine? E si può vivere in completa solitudine? Mancherebbe la vitalità e l’iniziativa, contrassegno di un presente che si anima solo nella relazione: «L’unione fomenta nelle persone un impeto all’azione che raramente raggiungerebbero da sole. A questo serve la società» (ivi, p. 51).

Tra la solitudine dell’individuo segnato da una sua originalità e l’energia che genererebbe dalla relazione sociale come e dove trovare un punto di mediazione?

Il punto di mediazione tra il monologo dell’individuo solo e il vincolante dialogo sociale è nell’affinità libera che si viene a creare nella simpatia e nella conversazione: «Ognuno ricerca il proprio simile ed ogni interferenza con il libero gioco delle affinità comporterebbe imbarazzo e soffocamento. Ogni conversazione è un esperimento magnetico» (ivi, p. 54).

L’associazione libera tra anime affini, che dà vita alla conversazione – che addirittura Milton a metà Seicento immaginava come il cuore stesso dell’unione matrimoniale – diventa la forma in cui l’individuo può restare sé stesso nella sua unicità senza smarrire l’energia che si genera dalla relazione sociale.

Si determina così quella “fiducia in sé”, effetto della realizzazione del proprio genio, nel momento in cui l’individuo è capace di prendere le distanze dal più grande rischio che porta con sé la democrazia, e cioè l’imitazione degli altri, il conformismo. Come scrive Emerson in Self-Reliance: «The virtue in most requested is conformity. Self-reliance is its aversion» (Emerson 2003, p. 178).

La questione è dunque decisiva: nessuno realizza sé stesso senza individuarsi e distinguersi dall’altro, anche se dall’altro riceve l’energia necessaria per agire, per convertire la sua forza latente di “grande uomo” in azione. È ciò che definisce per Emerson il carattere: «In questi uomini c’era qualcosa che generava un’aspettativa la quale eccedeva tutte le loro gesta. La maggior parte del loro potere era latente. Questo è ciò che chiamiamo carattere: una forza riservata che agisce con la sua presenza e senza mediazioni» (2025, p. 188).

Dunque, è nello spazio-tra individuo e società, latenza ed azione, immediatezza e mediazione, che si determina la vita dell’uomo. Sempre.

In questo spazio-tra sembrano però aprirsi due strade. O l’espressione del genio individuale, capace di portare creativamente a rappresentazione nell’opera quei «rejected thoughts» (Emerson 2003, p. 176) della società a cui parla, svolgendo così un compito decisivo per il benessere di tutti; o l’azione dell’uomo di potere, che usa i (ri)sentimenti diffusi nel corpo sociale per accrescere il suo potere individuale ed esporre la sua forza.

L’artista e l’uomo di potere, due individui soli e inconciliabili. Il primo genera e fa nascere il nuovo, il secondo lo blocca con l’esercizio anche estremo del potere.

C’è solo una eccezione a questo, ma eccezione importante. E riguarda l’uomo che attraversa il potere senza occuparlo, rendendolo il luogo dell’esercizio creativo di una politica capace di reinventare la vita, concedendo ad ogni individuo la libertà di farlo, e con ciò di emergere seguendo il suo genio.

È stata l’epoca dei Padri Fondatori dell’America, quella degli Adams e dei Jefferson, di cui porta traccia il loro epistolario, magnificato da Ezra Pound: «Niente supera la dimostrazione che in America C’ERA LA CIVILTÀ, se non la serie di lettere scambiate fra Jefferson e John Adams» (Pound 2016, pp. 213-214).

E in una di queste lettere, Jefferson rende chiara l’idea di un individuo capace naturalmente di emergere per talenti e virtù (“aristocrazia naturale”), e non per ricchezza e nascita (“aristocrazia artificiale”): «For I agree with you that there is a natural aristocracy among men. The grounds of these are virtue and talents […]. The natural aristocracy I consider as the most precious gift of nature for the instruction, the trusts, and government of society» (Jefferson 1959, p. 388).

Di questa “aristocrazia naturale” oramai da tempo non sembra esserci più traccia, e non solo in America.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009.
A. Adams, J. Adams, T. Jefferson, The Adams-Jefferson Letters, a cura di L.J. Cappon, The University of North Carolina Press, Chapell Hill 1959.
R.W. Emerson, Nature and Selected Essays, Penguin, London 2003.
E. Pound, Dal naufragio di Europa, Neri Pozza, Vicenza 2016.

Ralph Waldo Emerson, Società e solitudine, Orthotes, Napoli 2025.

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