Nel roadmovie di Wim Wenders Alice in den Städten (1974), il giornalista Phillip Winter, reduce da un lavoro andato in malora, rientrando in Europa da New York si trova costretto senza preavviso a prendersi cura della piccola Alice, la cui madre si volatilizza dall’hotel in cui i tre avevano deciso di pernottare prima del volo. All’aeroporto di Amsterdam, in cui altri impedimenti freneranno la strana coppia dal rientro in Germania, davanti alla porta del bagno in cui Alice si è andata a chiudere Phillip si accovaccia e tira fuori un’agendina di quelle di una volta, di quelle piene di informazioni di servizio come i prefissi telefonici delle città principali, Alice ricorda di avere una nonna da qualche parte in Germania e Phillip inizia a leggerle in successione alfabetica i nomi delle maggiori città dell’allora RFT, come si chiamava in Italia. Dopo aver incassato solo dinieghi e rimbrotti, giunto quasi alla fine dell’alfabeto, dice “Wuppertal” e allora Alice apre la porta e all’improvviso, al loro viaggio, si aggiunge l’idea di una destinazione.
Appena tre anni dopo, nel 1977, il poeta milanese Giovanni Raboni, scrivendo un autoritratto dalla tribuna già crucialmente sedimentata dei suoi 45 anni, racconta di sé bambino prima dello sfollamento causato dai bombardamenti su Milano e dona una pennellata del miglior verismo lombardo attraverso il ricordo dei giochi, in primis quello del pallone, che dalla finestra di casa in via San Gregorio vedeva fare ai bambini che di pomeriggio affollavano quel terrain vague da cui negli anni ’30 erano già scomparsi i binari della ferrovia. Nel suo autoritratto, Raboni descrive il ricordo di quella finestra come della molla propulsiva che lo ha spinto a scrivere poesie, per attingere allo stupore delle cose del mondo senza farsene travolgere, proprio come quella finestra gli aveva permesso di godere lo spettacolo dei giochi restandone protetto e al riparo. La parola che trova una chiave dove non esiste alcuna combinazione, aprendo scenari di senso che nessuno aveva immaginato, perché nessuno aveva pensato che quella finestra potesse dischiudersi sotto l’impulso di sequenze di parole, così come mai Phillip Winter, che non a caso, a fatto compiuto, ne ride di gusto, avrebbe pensato che sarebbe bastato dire “Wuppertal” perché Alice aprisse la porta dietro cui si era rinchiusa ed isolata.
Rodolfo Zucco, già curatore dell’edizione einaudiana in due volumi di tutte le poesie di Giovanni Raboni, con la curatela per i tipi di Mimesis di un’antologia di poesie, di interviste e di prose d’occasione sul tema del calcio, offre un volumetto molto agile, corredato da un ricco apparato critico, che si lascia consultare con gusto e permette al lettore meno iniziato di orientarsi su figure e vicende esistenziali che fanno da serbatoio di ispirazione alle parole di Raboni, come a quello più patito di rinovellare immagini ed episodi della storia calcistica novecentesca, riscoprendo quanto saldamente siano ancorati all’immaginario cui attinge per un’autodefinizione del proprio sé. E Zucco – pur rammaricandosi di non poterne citare l‘esatta fonte – giustamente non si trattiene dalla troppo grande tentazione di dare al libro il titolo di una frase comunemente attribuita a Raboni: «Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita», una frase che contiene in sé tutto il giocoso stupore del poeta-bambino che, giunto ai consuntivi dell’età matura, nella continua ricorrenza sottotraccia del piacere ingenuo e disinteressato di parteggiare per i colori sociali di una squadra di calcio, individua il filo d’Arianna che tiene insieme tanti pezzi del proprio cammino, illuminandoli singolarmente e restituendo ciascuno di essi ad un più vasto orizzonte di senso.
Il calcio, per Giovanni Raboni, con la passione gratuita e viscerale che alimenta, permette al singolo individuo di attraversare con minor stordimento epoche diverse e, ritornando sempre e di nuovo al cuore originario di una passione di cui non ci si può spiegare l’origine, di lenire l’angoscia straziante di non saper rinascere a se stessi. «Dalle gronde / viene un fischio acutissimo, leggero, come / se in un altro quartiere, oltre l’astruso / cerchio del Vigorelli, nel rombo / dell’aria condizionata / nascesse ancora tuo figlio». Sono gli ultimi versi di Compleanno, poesia contenuta nella raccolta giovanile Le case della Vetra, in cui compare lo spettro di un monumento dello sport milanese, il velodromo Vigorelli, che già sembra essere invocato come alibi residuale per orientarsi in una città che cambia implacabilmente. In un’altra poesia della stessa raccolta, Risanamento, descrivendo la topografia dilaniata della sua città, l’intombamento dei navigli, Raboni si chiede come ne parlerebbe di tutto questo a suo padre, che non c’è più, e gli ultimi due versi recitano: «A me sembra che il male / non è mai nelle cose, gli direi».
Nella mortificazione della memoria privata e pubblica, individuale e collettiva causata dai bombardamenti bellici prima e dagli appetiti di corto respiro di interessi economici dopo, Raboni riconosce la possibilità di restare presente a tutto se stesso nella disposizione a gioire e soffrire per le vicende di campo della sua Inter, che suo padre gli aveva fatto scoprire portandolo la domenica all’Arena civica presso il Castello sforzesco in compagnia del fratello maggiore e che lui avrebbe ritrovato, con le stesse maglie nerazzurre di sempre, dopo gli anni della guerra e dello sfollamento, allo stadio di San Siro, che frequentò per lunghi anni in compagnia del fraterno amico Vittorio Sereni.
Un sonetto della tarda raccolta Ogni terzo pensiero, titolo su cui grava il fantasma della Tempesta shakespeariana (And thence retire me to my Milan, where / Every third thought shall be my grave) si apre con i versi «Sí, certo, sarebbe bello abitare / dove una vera guerra non c’è stata, / una città intatta, né bombardata / né ricostruita, da conquistare» e l’autore sa che questo non è possibile, come però sa di poter confidare in un talento della ragione, un’astrazione che non è mai fuga, ma esercizio di resistenza alle sconcezze del mondo e che può prendere corpo e materia redigendo una poesia su un foglio bianco, come anche condividendo il pellegrinaggio laico di un’andata allo stadio con un amico o con un figlio che sa che stai invecchiando.
Negli interventi in prosa raccolti da Zucco, balza all’attenzione la serena chiarezza con cui Raboni, con intransigenza, sostiene il suo punto di vista, evidentemente senza mai perdersi in calcoli grami e poverelli, relativi alle aspettative dell’editore o, peggio ancora, del pubblico. All’indomani dell’immane tragedia dell’Heysel si smarca dall’ondata dominante di sdegno patriottico e di demonizzazione dei Reds del Liverpool e osserva che in una società dominata dalla sopraffazione e dalla violenza non è impensabile che gruppi ultras di una squadra arrivino ad assalire in modo vilissimo famiglie indifese della tifoseria avversaria, e arriva a dirsi convinto che, se ne fosse data la possibilità, gli ultras della tifoseria assalita non avrebbero avuto remore a fare lo stesso contro i rivali più inermi. È difficile immaginare che oggi una riflessione così onesta e fuori dal coro potrebbe trovare spazio su qualche grande giornale. Così come quando, commentando il rifiuto opposto dalla Lega Serie A alla richiesta del Foggia di scrivere Pace in Bosnia sulle sue maglie, e pilatescamente motivato dal fatto che si trattava di una questione politica, di competenza di organi diversi da quello cui la richiesta era stata inoltrata, Raboni si chiede se l’aggettivo “politico” non venga usato per respingere in malafede i doveri e gli impulsi della solidarietà umana e, nel pretestuoso rifiuto di assumere una posizione politica, individua le intenzioni politiche più infamanti.
Densissime le righe in cui, dal dizionario dei sinonimi e dei contrari di Tommaseo-Rigutini, l‘autore recepisce la distinzione tra diletto e piacere, riconoscendo a quest‘ultimo l’ombra di pensieri tristi e affannosi, causati dalla necessaria combutta con i sensi, da cui invece resta sempre scevro il diletto, che riguarda l’anima nella sua partecipazione piena e totale a qualcosa che l’appaga e da cui nulla pretende, qualcosa che, fin quando dura, trattiene l’anima lontana da pensieri gravosi, come succede a Raboni quando, incantato per un movimento di Roberto Baggio, scrive: «Nella stravagante spola / da un piede all’altro, nel vivido / organizzarsi del brivido / fra la tomaia e la suola/». Come i giochi dei bambini, come la scrittura poetica, la passione sportiva è un mistero nella sua purezza, svincolata da ogni interesse pratico.
In un mondo pieno di botole, di trabocchetti ed ogni altra sorta di trappole, innescate ad arte sotto coltri di foglie disposte in modo da farle apparire innocue, nella raccolta Cadenza d’inganno Raboni inserisce la poesia Notizie false e tendenziose, ispirata dalla morte di Giangiacomo Feltrinelli, in cui scrive: «Se la nostra leggerezza è scritta sugli alberi / la cancelleremo con i denti, / trangugeremo insieme nomi e scorza». Ma è un fatto che non si può passare tutta la vita a spaccarsi i denti contro la corteccia degli alberi, a meno di non decidersi a prendere congedo dalla vita stessa, andando alla bella morte come successe anche a Giangiacomo Feltrinelli. Per tutto il resto, avanza una possibilità che Raboni butta lì nell‘incipit di una poesia raccolta in Ultimi versi: «Allo stadio andavamo presto, / non volevamo perdere / la partita prima della partita»: preservare lo spazio di un proprio, personale raggio d’azione, insieme con responsabilità e con intransigenza. E farlo sempre e comunque, prima ancora che la vera partita ci dica se abbiamo vinto, perso o pareggiato.
E così, finché sarà possibile, saper alimentare sempre di nuove movenze e di nuova linfa, di parole che sappiano dischiudere la finestra e risuonare come “Wuppertal” alle orecchie spaesate di Alice il diletto di chi «[…]cerca di dribblare/ lo stopper della morte/ con il numero fantastico dei minuti in un giorno, / dei giorni in una vita».
Riferimenti bibliografici
G. Raboni, Tutte le poesie 1949-2004, 2 vol., a cura di R. Zucco, Einaudi, Torino 2014.
Giovanni Raboni, Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita. Scritti sul calcio 1979-2004, Mimesis, Milano 2024.