Il recente saggio di Samuel Antichi (Meltemi, 2024) ha, tra i numerosi meriti, quello di portare in Italia un tema già al centro di numerose riflessioni nel contesto anglo-americano, ovvero come il tema dello sguardo e della visibilità della realtà circostante arrivi ad influenzare e a caratterizzare i conflitti del nuovo millennio. In principio fu la Guerra del Golfo, la prima in cui le operazioni belliche furono mostrate in tutta la loro asetticità, in cui allo spettatore convinto di vedere tutto in realtà non veniva mostrato nulla. Fuochi d’artificio, come alcuni reporter definirono le prime immagini diffuse in Mondovisione, in grado di modificare la percezione della morte e trasformarla in un luna park di bombe “intelligenti” in cui le vittime incominciano eufemisticamente ad essere definite “danni collaterali”.
A partire dall’inizio degli anni novanta, le immagini della guerra devono diventare per forza di cose neutre, dal momento che l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale e delle guerre successive aveva rivelato il potere tanatologico dell’immagine bellica (sparare/girare, ecco il diktat del bravo reporter di guerra, giocando anche sull’analogia del verbo “to shoot” in lingua inglese). Tuttavia il limbo della guerra d’artificio, guerra artificiale potremmo dire, ha la durata di un decennio scarso e comprende sotto il suo cappello anche la sostanziale invisibilità del conflitto nell’ex-Yugoslavia, alla cui endemica mancanza di immagini avevano risposto anche Chris Marker con il suo Casque bleu (1995), in cui il regista francese raccoglie la toccante testimonianza di François Cremieux, un soldato in missione per conto dell’Unione Europea e Jean-Luc Godard con il breve e intenso Je vous salue, Sarajevo (1993).
Il libro di Antichi arriva progressivamente a raccontare le guerre “chirurgiche” degli anni novanta, attraverso un interessante percorso che parte dalla contemporaneità per affacciarsi al nostro passato recente e poi tornare, alla luce delle considerazioni fatte, ad un distopico presente in cui l’allenamento dei soldati si svolge molto spesso attraverso sfide videoludiche (esemplare in tal senso il videogioco America’s Army finanziato dal governo federale degli Stati Uniti e che oltre ad avere una finalità videoludica è anche parte del training bellico delle nuove generazioni).
Tuttavia, accanto a questa tendenza derealizzante, promossa in primo luogo dai “signori della guerra”, il cui obiettivo primario è proprio quello di occultare agli occhi del mondo gli “effetti collaterali” della loro sete di potere, si sono affermate, in maniera sempre più massiccia, soprattutto a partire dai movimenti della Primavera araba, delle forme di «net-attivisimo» (De Felice 2017) finalizzate a creare una rete social di controinformazione in cui la mancanza di immagini del potere viene sopperita da una proliferazione iconica caratterizzata da una molteplicità di punti di vista (Citizen Camera-Witness) in grado di creare paradossalmente un effetto non voluto di saturazione e di assuefazione, come sostiene Marie-José Mondzain: «La violenza del visibile non ha altro fondamento che l’abolizione intenzionale – o non intenzionale, del pensiero e del giudizio» (Mondzain 2017, p. 47), una considerazione cui giunge dubbiosamente anche Antichi, ovvero se l’eccesso di immagini possa in effetti rendere un buon servizio al sostegno di giuste cause: «Tuttavia, l’espansione del citizen imagery, più che portare chiarezza sulle vicende filmate molto spesso porta a mettere in dubbio la loro stessa autenticità» (Antichi 2024, p. 178).
Assuefazione, abitudine, perplessità, sospettosità: lungo queste direttive si gioca un’altra guerra, parallela a quella sul campo, ovvero la guerra delle immagini. Gli stati hanno da tempo infatti intuito le potenzialità e i rischi di questa guerra di immagini e il potere si muove anche surrettiziamente attraverso il controllo degli spazi di visibilità. Tuttavia quella che può sembrare una deriva iconofila del nuovo millennio in realtà era una strategia di controllo già attuata dal regime nazista, il quale aveva già intuito che il potere si gioca sul controllo o sulla distruzione delle immagini della realtà e che accade veramente solo quello di cui si reca una testimonianza visiva, come ricorda lo stesso Antichi spostando questa rivelazione mediatica al celeberrimo caso del pestaggio dell’afroamericano Rodney King nel 1991, prima autentica Visible Evidence mediatica su cui si giocò l’intero processo agli impuniti colpevoli.
Tuttavia, rispetto agli anni passati, questa guerra delle immagini si gioca anche attraverso nuovi dispositivi di ripresa, inizialmente inventati con scopi specificamente militari e che nel documentario contemporaneo sono diventati i mezzi privilegiati di uno sguardo panottico e disincarnato, ovvero il drone, croce e delizia del cinema contemporaneo, sguardo abusivo e abusato sul mondo che ha scaltramente spodestato la Voice of God di griersoniana memoria del documentario di propaganda per affermare il trionfo incondizionato di un Eye of God in grado di guardare, riprendere, colpire, uccidere attraverso uno sguardo disincarnato. L’esito non è molto diverso da quello preconizzato da Powell in L’occhio che uccide, 1960, laddove però dietro la macchina da presa assassina c’era ancora una compresenza umana che ci inchiodava ad una responsabilità etica di cui l’occhio tecnologico del drone si disfa con non malcelata soddisfazione.
Ed ecco che il libro di Antichi si interroga sulla dirimente questione etica. Uccidere con il drone è meno grave che uccidere con il fucile? Fare leva sulla sensibilità dello spettatore attraverso lo spettacolo del dolore e della violenza esasperata rende il Citizen Journalism migliore del giornalismo d’inchiesta tradizionale? L’eccesso di immagini non rischia di anestetizzare lo spettatore rendendolo insensibile a qualsiasi stimolo? Il doppio rischio in tal senso è quello di produrre uno spettatore assuefatto per cui ogni immagine equivale ad un’altra e per il quale già il solo fatto di essere immagine significa l’appartenenza ad una dimensione simulacrale, derealizzante oppure all’opposto uno spettatore iconofilo per il quale il solo fatto di essere immagine diffusa sulla rete porta la stessa ad assurgere un ruolo di testimonianza: «Come se il certificato di presenza che conferiscono i video amatoriali bastasse a supportare l’autenticità e la veridicità della testimonianza (…)» (Antichi 2024, p. 55).
Testimoni oculari di conflitti iconofili o scetticamente iconoclasti, il risultato è il medesimo ed entrambi gli approcci allontanano dalla conoscenza degli eventi, dalla comprensione degli snodi storici, come rileva anche Jacques Rancière: «Non c’è nessun percorso diretto che porti dalla visione di un evento all’immediata comprensione del mondo esterno, nessuna strada inequivocabile che parte dalla consapevolezza intellettuale fino all’azione politica» (Rancière 2018, p.75). Vedere non è potere.
Antichi conclude l’ampio e documentato volume con l’analisi di una possibile via d’uscita a questa impasse che conduce immancabilmente verso una passività spettatoriale ottundente ovvero l’esperienza del gruppo britannico Forensic Architecture, collegato con il Goldsmiths University of London; si tratta di un collettivo internazionale che ha come obiettivo quello di condurre investigazioni sulle violenze perpetrate ai danni di individui innocenti da parte degli Stati, delle forze militari, di polizia; il gruppo lavora in collegamento con le istituzioni, con gli attivisti, con le ONG e con i media impegnati a produrre controinformazione e a difendere i diritti civili e legali costantemente calpestati in varie parti del mondo dalle guerre, dai regimi e dalle forze repressive.
Le investigazioni vengono condotte attraverso il linguaggio documentario e attraverso un lavoro di rimontaggio di materiali estremamente eterogenei, impiegando visual data, geolocalizzazioni, filmati catturati dalla rete da utenti singoli, interviste sul posto e altre numerose e variegate fonti, il cui assemblaggio, una vera e propria indagine intorno a determinati casi rimasti irrisolti oppure volutamente insabbiati o distorti dalle forze politiche e militari, viene poi utilizzato in sede processuale per ribaltare sentenze oppure esposto all’interno delle gallerie d’arte e delle esposizioni di arte contemporanea. L’esperienza del collettivo britannico è certamente la più esemplificativa per dimostrare come le guerre del nuovo millennio siano in primo luogo guerre dello sguardo o perlomeno guerre per il predominio sullo sguardo, laddove ogni singolo morto viene conteggiato o occultato in base alle immagini raccolte, indipendentemente dallo loro referenzialità, purché siano immagini. Non immagini giuste, ma giusto immagini.
Riferimenti bibliografici
M. Di Felice, Net-Attivismo, Edizioni Estemporanee, Milano 2017.
M.J. Mondzain, L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis, EDB-Edizioni Dehoniane, Bologna 2017.
J. Rancière, Lo spettatore emancipato, DeriveApprodi, Roma 2018.
Samuel Antichi, Shooting Back. Il documentario e le guerre del nuovo millennio, Meltemi, Milano 2024.