Oggi parliamo più spesso di patriarcato che di emancipazione femminile, ma forse dovremmo riscoprire l’importanza del secondo termine. L’emancipazione segna infatti l’orizzonte del cambiamento, della rivoluzione. Una tradizione del pensiero politico novecentesco – pensiamo, tra gli altri, a Hannah Arendt e Michael Walzer – mette l’accento sul fatto che una rivoluzione si articola in due momenti. C’è innanzi tutto il momento della liberazione, a cui segue però il momento, assai più difficile, dell’istituzione di una nuova forma di libertà. Si potrebbe dire con un gioco di parole che la soggettività liberata – popolo, schiavi, classe operaia – deve ancora diventare libera. C’è una differenza tra il movimento di liberazione e la costituzione di un nuovo spazio di libertà, con le sue regole e le sue figure di riferimento. Nel nostro caso, la liberazione riguarda il vecchio potere del patriarcato, con i suoi spazi e le sue regole. È un potere giunto al tramonto. Possiamo discutere sulle sue mutazioni; possiamo parlare di maschilismo e di machismo. Possiamo ragionare sulle peculiarità dei singoli fenomeni, ma la sostanza resta sempre la stessa: nel patriarcato l’uomo considera la donna come un proprio possesso. Possiamo guardare alle forme più strutturate e storicamente sedimentate del patriarcato: ritroviamo tuttora le vestigia del patriarcato nella famiglia, nell’ambiente sociale in cui viviamo, nella religione. Le ritroviamo ancora perfino nel diritto: se non nella lettera della legge, almeno in alcune sue applicazioni. E possiamo considerare anche gli effetti del patriarcato in una società diventata liquida, dove tale fenomeno si presenta nelle forme più elementari e regressive della diseducazione affettiva e, purtroppo, della violenza. Ma, al fondo, si tratterà sempre e comunque dell’affermazione del dominio dell’uomo sulla donna.

Non è facile mettere a tema questa forma di dominio e di subalternità, perché essa ci appare quasi come una struttura fuori dal tempo: le relazioni tra uomo e donna appaiono da sempre organizzate in un certo modo, tanto da sembrare inscritte in un presunto ordine naturale delle cose. I pregiudizi e le sovrastrutture culturali finiscono così per scomparire dietro il corso apparentemente inalterabile dell’intimità degli individui e della sfera allargata dei loro rapporti. Ed è, si potrebbe dire, un’alienazione tanto più terribile per la donna, in quanto non tocca solo dei ruoli e delle funzioni sociali, ma incide sulla sua stessa identità di persona e di essere vivente. La nuda vita della donna vi è toccata con una violenza per certi versi superiore a quella dello sfruttamento economico.

La letteratura moderna prima e poi il cinema hanno avuto l’incredibile potere di rendere visibile una condizione che sembrava inalterabile perché prigioniera dell’eterno riprodursi della natura. Cinema e letteratura hanno dato in questo modo un contributo ineguagliabile al processo di emancipazione femminile. Attraverso decine di storie di personaggi femminili, hanno dato vita a grandi figure di emancipazione. Si tratta spesso di figure tragiche e perfino contraddittorie, come Emma Bovary o Anna Karenina. Tuttavia, queste figure esercitano un potere, nella misura in cui riescono a spostare il fuoco del racconto dallo scandalo della disobbedienza al desiderio di cambiamento. Si può anzi dire che la tragicità e la contraddittorietà di queste figure dà corpo alla complessità e alla potenza del desiderio, che tiene insieme la spinta verso la libertà e la ricerca di nuove relazioni, di nuovi incontri. Shayda, l’opera prima della regista iraniana-australiana Noora Niasari, non fa eccezione a questa regola.

Il film racconta come la giovane Shayda decide di lasciare il marito Hassan, un uomo violento che non le permette di compiere autonomamente le proprie scelte. Siamo nel 1995: Hassan, Shayda e la loro figlia di sei anni Mana sono iraniani, ma vivono in Australia, dove l’uomo studia medicina. Del paese d’origine Hassan ha mantenuto un’idea patriarcale della famiglia e della relazione dell’uomo con la donna. In questo caso, però, non siamo di fronte solo a un retaggio culturale, perché il patriarcato è uno dei pilastri su cui si fonda il potere del regime teocratico che governa l’Iran. Anche se ora vivono in Australia, chiedendo il divorzio, Shayda si trova contro una parte della comunità di iraniani della città dove vive; sua madre le telefona di continuo dall’Iran per scongiurarla di essere ragionevole di accettare il comportamento del marito. Anche il regime fa sentire a distanza la sua presenza: il governo iraniano nega a Shayda la borsa di studio necessaria per frequentare anche lei l’università in Australia.

La vicenda si svolge secondo un copione consolidato: quando Shayda decide di trasferirsi in una casa protetta con la figlia in attesa del divorzio, Hassan prima tenta di blandirla, poi prova a manipolare la piccola Mana per estorcere informazioni sulla vita della moglie e per fare pressione su di lei. Infine, quando si rende conto che la moglie sta ritrovando senza di lui la libertà e la gioia di vivere, Hassan irrompe nella festa di Nawrouz (il capodanno iraniano) a cui partecipa Shayda, aggredendo lei e il suo amico Farhad. Segue l’arresto di Hassan. Si diceva all’inizio che ogni sforzo di emancipazione ha alla sua base un desiderio. Il desiderio di Shayda è essenzialmente materno. Le sofferenze e i pericoli a cui espone se stessa, scegliendo di non venire a patti con il suo mondo, tradiscono il desiderio che ha la donna di offrire alla figlia Mana una vita diversa. Nella vita che Shayda desidera per la piccola Mana, la bellezza, la gioia e la seduzione proprie della femminilità non sono mezzi per compiacere l’uomo, ma diventano o tornano a essere un modo di soddisfare il proprio bisogno di sentirsi appagata. Nel nuovo mondo che Shayda vuole consegnare a Mana, la donna non danza per il piacere dell’uomo, ma per il proprio piacere.

Il video che alla fine del film precede i titoli di coda ci fa scoprire che quella di Shayda è una storia vera, trasfigurata in un racconto di finzione. Il punto di forza sta nella prova attoriale della protagonista Zar Amir Ebrahimi, che non è solo l’attrice iraniana vivente più conosciuta a livello internazionale insieme a Golshifteh Farahani, ma è anche un’attivista per i diritti delle donne e per la democrazia in Iran.

Si può dire che Farahani e Amir Ebrahimi hanno dato vita a una nuova figura di diva, per la quale il glamour del cinema internazionale (i festival, le interviste sui rotocalchi, la presenza sui social media) diventa una vetrina dell’impegno politico, e l’impegno politico è a sua volta una cifra dell’essere star. Non è di certo la prima volta che le star rendono pubblica una qualche forma di militanza politica o sociale. Sono le caratteristiche dell’impegno delle attrici iraniane a essere peculiari. Amir Ebrahimi e Farahani non sono né semplici attiviste à la Jane Fonda né rivestono una carica istituzionale come Melina Mercouri, ma si battono per un cambio di regime nel loro paese. Sullo sfondo si delinea un’idea nuova: il divismo rivoluzionario.  Zar Amir Ebrahimi incarna questa idea in maniera originale: nella serie di film a cui ha partecipato da quando ha lasciato l’Iran, ha progressivamente messo a fuoco l’immagine di una donna fuori norma. Non una semplice ribelle, che vuole infrangere le regole, ma una donna che mira a rovesciare quelle regole. Anche quando sembra connivente al potere, come nel caso dell’allenatrice interpretata in Tatami, il suo è in realtà un personaggio che attende solo l’occasione per rialzare la testa e per rivelare la sua vera natura. È una donna che ha conosciuto la repressione, ne ha compreso le logiche e ha capito che l’unica via di salvezza sta nella rottura radicale. In Shayda questa esigenza è tanto più esemplare in quanto indica un nuovo orizzonte di vita, simboleggiato dal desiderio di strappare la figlia dal mondo patriarcale in cui lei è cresciuta.

Shayda. Regia, sceneggiatura: Noora Niasari; montaggio: Elika Rezaee; fotografia: Sherwin Akbarzadeh; interpreti: Zar Amir Ebrahimi, Osamah Sami, Mojean Aria, Jillian Nguyen, Rina Mousavi, Selina Zahednia, Leah Purcell; produzione: Origma 45, The 51 Fund, HanWay Films, Dirty Films, Parandeh Pictures; distribuzione italiana: Wanted Cinema; origine: Australia; durata: 118’; anno: 2023.

Tags     divismo, emancipazione
Share