Esiste lo sport movie? Immagino di sì: cosa ci può essere di più cinematografico dello sport? Il gioco offre impareggiabili scene d’azione. Lo sportivo è per definizione l’eroe moderno: fra le immagini di dee ed eroine mitiche, di cui è composto l’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg, non spunta forse a un certo punto la fotografia di un’atleta? Ci sono lingue – segnatamente il persiano – in cui per indicare l’eroe e il campione sportivo si usa la stessa parola: ghahreman in questo caso. L’idea di un genere come lo sport movie fa pensare a Hollywood.

Se esiste, come indubbiamente è, questo genere rappresenta quello che può fare la tanto deprecata “industria culturale” al suo meglio. Sì, c’è senz’altro la facilità dei buoni sentimenti, con tutto il rischio di banalizzazione che comporta. C’è l’identificazione, magari lasciando allo spettatore qualche libertà, in un personaggio di regola positivo, che non può non essere stereotipato: una figura più o meno sovraccarica di cliché. Poi però c’è anche la possibilità di rovesciare un genere così ben codificato. È un po’ come con gli “spaghetti western”. Il western classico distingue chiaramente fra buoni e cattivi. Poi arriva lo spaghetti western, sovversiva versione italiana di un genere hollywoodiano per eccellenza, e vediamo rappresentati buoni spietati e cattivi dal cuore d’oro. Chi guarda comincia così a riflettere sulla vita, sul bene e sul male, partendo dalle stesse idee preconcette di cui si è nutrito il suo immaginario di spettatore ingenuo.

Allo sport movie credo che succeda proprio la stessa cosa: non è forse l’effetto che fa a un pubblico abituato alla violenza e al machismo del pugilato la visione di Million Dollar Baby di Clint Eastwood? Avendo detto questo, forse avrei quasi già espresso il mio pensiero su TatamiUna donna in lotta per la libertà, il film di Zar Amir Ebrahimi e Guy Nattiv. C’è un campo ristretto e delimitato, com’è appunto il tatami che dà il titolo al film: questo spazio offre l’opportunità di riprese originali su uno sport, il judo, fatto non solo di potenza fisica, ma di destrezza, agilità e strategia; queste qualità si manifestano incredibilmente nell’abbraccio fra due corpi, stretti in una morsa e tenuti e non uscire dal quadrato dello spazio di gioco. C’è l’identità femminile della protagonista, che, come in Million Dollar Baby, permette di considerare il coraggio, tipica virtù sportiva, da un punto di vista diverso, slegato dall’abituale congiunzione di forza e virilità. C’è il fatto che il judo, essendo uno sport di lotta fondato su un forte rispetto delle regole, offre una prospettiva non banale sul senso etico dei personaggi.

Avrei detto quasi tutto su Tatami, tranne la cosa più importante: la protagonista, Leila (Arienne Mandi), è una judoka iraniana, la più forte della sua nazionale, e sta partecipando ai campionati mondiali di Tbilisi. Potrebbe vincere la competizione, se a un certo punto, dai palazzi del potere a Teheran, non arrivasse alla sua allenatrice Maryam (Zar Amir) una telefonata che le ingiunge di far ritirare l’atleta, per evitare che possa gareggiare con l’avversaria israeliana. La Repubblica islamica dell’Iran considera infatti Israele il nemico sionista e si rifiuta di far gareggiare i suoi sportivi con gli atleti israeliani. Il ritiro per ragioni politiche sarebbe però un’infrazione delle regole del judo: Leila dovrebbe quindi simulare un infortunio, come aveva fatto anni prima la stessa Maryam, quando ancora gareggiava.

L’etica sportiva diventa improvvisamente un affare politico: Leila non vuole tradire i suoi valori e, a costo di mettere in pericolo la sua famiglia in Iran, continua a gareggiare a rischio di doversi scontrare con Shani (Lirr Katz), la temibile avversaria israeliana, verso la quale nutre peraltro sentimenti di amicizia. Lo sport movie diventa allora un thriller, perché le pressioni e le minacce sulle due donne e sulle loro famiglie si fanno sempre più pesanti: i servizi segreti iraniani arrivano fino al punto di tentare di rapire Maryam, dopo che Leila, facendo scoppiare uno scandalo, ha denunciato la situazione ai dirigenti sportivi internazionali e ha chiesto asilo politico.

È inutile dire che, per tutta la durata del film, lo spettatore si chiede che cosa succederà quando Leila incontrerà Shani sul tatami. È giusto perciò non anticiparlo qui. Anche perché l’evento più forte e stupefacente del racconto non è questo, ma la conversione di Maryam, che fin dall’inizio non è stata solo la severa allenatrice di Leila, ma anche la fedele esecutrice degli ordini provenienti dall’alto. A un certo punto, però, capiamo che Maryam non obbedisce per convinzione, ma per paura. Alla fine la donna comprende che si sta ripetendo contro Leila quanto era accaduto a lei anni prima, e decide di non permetterlo. Paradossalmente, il rispetto delle regole, severe ma giuste, del gioco è ciò che dà alle due donne la forza per ribellarsi alle regole, ingiuste e crudeli, di una dittatura.

Attraverso la figura di Maryam, grazie all’intensa interpretazione di Zar Amir Ebrahimi, questo film, così profondamente hollywoodiano nel senso migliore del termine, lascia emergere un tratto inconfondibile dello stile del cinema iraniano, che, come nei film di Kiarostami e Panahi, è capace di giocare sul confine fra realtà e finzione. Zar Amir vive in esilio e ha conosciuto la repressione del regime iraniano: nel documentario Mon pire ennemi (2023), il regista Mehran Tamadon le ha chiesto non solo di raccontare le violenze fisiche e psicologiche ricevute nelle prigioni iraniane, ma di fargliele provare, interpretando il ruolo della sua aguzzina. La trasformazione esteriore e interiore dell’attrice è impressionante: rapidamente, non solo imita le posture e gli atteggiamenti della torturatrice, ma ne assume anche la mentalità. La recitazione diventa una forma di enactment del trauma subito.

Questo lavoro su di sé, che Zar Amir pratica attraverso il cinema, torna nel personaggio di Maryam. La finzione lo rende anzi più sottile: attraverso il personaggio di Maryam, Zar Amir non parla solo della propria esperienza, ma della condizione, generica ma reale, di tutti gli iraniani, che sono tutti allo stesso tempo vittime del sistema repressivo e potenziali strumenti della sua politica di oppressione. Vivere sotto un regime totalitario significa essere prigionieri della natura viscida del suo potere: il male diventa una materia scivolosa, che vuole impedire a chi lotta di esercitare la sua presa.

Riferimenti bibliografici
S. Antichi, The Black Hole of Meaning, Bulzoni, Roma 2020.
D. Cecchi, Abbas Kiarostami, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2013.
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Angelo Guerini, Milano 1999.

Tatami. Regia: Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv; sceneggiatura: Elham Erfani, Guy Nattiv; fotografia: Todd Martin; montaggio: Yuval Orr; interpreti: Arienne Mandi, Zar Amir Ebrahimi, Jamie Ray Newman, Nadine Marshall, Lir Katz; produzione: New Native Pictures, Keshet Studios, WestEnd Films; distribuzione: Bim Distribuzione; origine: Stati Uniti d’America; durata: 105′; anno: 2023.

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