Il 3 gennaio 1954 la televisione fa il suo ingresso nelle vite di milioni di italiani. Nell’immediato, il consumo del nuovo medium va ad assumere una connotazione quasi esclusivamente pubblica. Questa tendenza, a ben vedere, è ancor più validata se osserviamo il comportamento, di fronte al suo arrivo, delle classi popolari. Oltre a essere meno abbienti, e quindi ad avere meno possibilità di acquistare un apparecchio televisivo, le classi “subalterne” assumono da subito un ruolo ambivalente nell’ambito del consumo televisivo: spinte, da un lato, dai toni entusiastici e trionfalistici che accompagnavano le innovazioni tecnologiche e sociali del “miracolo” economico, vengono, dall’altro, costantemente richiamate all’ordine dai denigratori della società dei consumi, conservatori di una cultura “alta” ben distante dalla dimensione popolare dei nuovi consumi culturali.

Pur schiacciata in questa dicotomia, la percezione è quella di un cambiamento epocale, di un’invenzione tecnica che porta con sé una serie di implicazioni sociali e culturali che, di lì a venire, avrebbero mutato abitudini, costumi, atteggiamenti e mentalità di milioni di persone. Già alla fine del decennio, diversi osservatori notano come, di fronte e a un paese che si muove a velocità diverse (Nord/Sud, centro/periferia), la Rai svolga una funzione di “ammodernamento”: uno stimolo, cioè, al raggiungimento di condizioni di vita sociali e culturali accettabili, soprattutto se paragonate ai decenni precedenti.

L’ambizione primaria di quella che viene comunemente definita come “televisione delle origini”, ovvero il periodo che va dall’inizio delle trasmissioni e che si esaurisce grossomodo con la fine del decennio, è quella di proporsi anzitutto come “servizio pubblico”: un vero e proprio mezzo di educazione popolare (seguendo la triade della BBC di John Reith educare-informare-intrattenere) con l’ obiettivo di “appianare” lo squilibrio geografico nella distribuzione sociale e geografica di cultura e modernizzazione nel nostro paese. Si tratta di quella “doppia articolazione” della televisione di cui parla Roger Silverstone in relazione a un mezzo di comunicazione che, sì, diffonde contenuti culturali attraverso i suoi programmi, ma che si propone anche come oggetto di consumo tramite la portata simbolica del suo dispositivo di diffusione: l’apparecchio televisivo.

Non a caso, negli anni cinquanta si parla proprio di “andare alla televisione”, in analogia della pratica largamente diffusa dell’andare al cinema. La visione collettiva nei bar, nei locali pubblici, nelle parrocchie o nelle sedi di partito di uno dei programmi più popolari di questi anni come Lascia o raddoppia? è particolarmente legata a una dimensione di consumo comunitario. Di contro, i salotti delle famiglie più abbienti iniziano a essere popolati da schermi televisivi che arredano, prima di tutto, le abitazioni borghesi dei centri urbani. In questo senso, il possesso o meno di un apparecchio televisivo tra le mura domestiche diventa un vero e proprio segno distintivo sociale: la linea di demarcazione tra un campo cui si appartiene e uno cui si vorrebbe appartenere. Fino alla fine degli anni sessanta, più precisamente fino al biennio 1968-1969, la maggioranza delle classi popolari continuerà ad assistere agli spettacoli televisivi in una dimensione più pubblica che privata. A partire dal decennio successivo, all’alba della fine del monopolio RAI, i processi di domesticizzazione della televisione possono dunque dirsi largamente conclusi.

Anche se i primi esperimenti e i timidi tentativi di televisione private in Italia nascono già negli anni sessanta, è nel decennio successivo che queste diventano oggetto di un dibattito pubblico (giornalistico, mediatico) e politico (parlamentare, ma non solo). Nel 1976, con una storica sentenza della Corte Costituzionale, finisce il monopolio della Rai e si avvia la cosiddetta fase di deregulation, che porterà già alla fine del decennio a un panorama a dir poco frammentato, dove il servizio pubblico inizia a fare i conti, dopo un ventennio di monopolio, con un regime di concorrenza. Tuttavia, già all’inizio degli anni settanta il sistema inizia a incrinarsi.

Tra il 1971 e il 1974 iniziano le prime trasmissioni in lingua italiana di alcune televisioni estere (Telecapodistria e la Televisione Svizzera tra tutte), il cui segnale inizia a essere recepito via etere anche dalle zone di confine; nello stesso periodo, un’emittente locale come Telebiella inizia le proprie trasmissioni utilizzando la tecnologia via cavo, e non l’etere. In entrambi i casi, si sfrutta il vuoto legislativo che accompagna i primi vent’anni di trasmissioni televisive.

Tali incrinature porteranno alle prime due sentenze della Corte Costituzionale, nel 1974, che di fatto legittimano l’emittenza estera in Italia (la prima) e liberalizzano le trasmissioni via cavo purché limitate all’ambito locale (la seconda). Un anno dopo, nel 1975 una Legge di riforma della Rai ribadisce, tra le altre cose, l’esistenza di un monopolio. Ma sarà proprio questa legge a essere impugnata dalla Corte Costituzionale che, nel 1976, decreterà la libera emittenza via etere (anche in questo caso, limitata a un non tanto specificato ambito locale). In questa fase, assistiamo a un pullulare di emittenti private, che rispettano in modo più o meno fedele questo vaghissimo restringimento all’ambito locale.

Telemilano, un’emittente fondata nel 1974 da quello che al momento è solo un imprenditore edile, Silvio Berlusconi, passa dal trasmettere via cavo per i soli residenti del quartiere periferico di Milano 2 alle trasmissioni via etere su tutta la provincia milanese; per poi arrivare a raggiungere, alla fine del decennio, tutte le regioni d’Italia attraverso un meccanismo di reti locali a lui affiliate (syndication) che mandano in onda alla stessa ora programmi registrati il giorno precedente. Nel 1980 quella stessa emittente prenderà il nome di Canale 5, tradendo a tutti gli effetti le proprie ambizioni nazionali.

Se dalla fine degli anni settanta molte emittenti private cercano di uscire dalla propria dimensione locale, abbracciando una vocazione nazionale di stampo per lo più imprenditoriale, nello stesso periodo si consuma un dibattito tra due possibili “culture televisive” che le nuove emittenti possono intraprendere all’interno del sistema televisivo nazionale: a) una vocazione politica, libertaria, spesso più attenta a un contesto comunitario e “di movimento”, che vuole traslare lo spirito del servizio pubblico in una dimensione soprattutto locale (questa sarà la strada intrapresa, ad esempio, da alcune esperienze di radio libere alla fine degli anni settanta); b) uno spirito imprenditoriale mosso per lo più da un carattere oppositivo al sistema monopolistico, contrario al servizio pubblico, votato a una logica di profitto e a un sistema commerciale di diretta ispirazione americana. È ad esempio attorno al dibattito sul cavo che si gioca una vera e propria battaglia sulla libertà di espressione, che vede talvolta coinvolti anche politici e intellettuali che portano avanti istanze contro-culturali di quella che all’epoca, sulla spinta dell’arrivo di alcune teorie nordamericane in Italia (Michael Shamberg e Marshall McLuhan), veniva definita guerrilla television.

All’interno di questo binomio, è sul finire degli anni settanta che le televisioni private diventano parte dell’agenda politica del nostro paese. È proprio in questo periodo che emergono nuove “culture televisive” alternative al servizio pubblico di Stato, che si consumeranno inesorabilmente nel giro di alcuni anni, lasciando spazio a un’unica alternativa possibile: una televisione commerciale, di matrice privatista, fondata su logiche di profitto e dunque sul predominio degli ascolti. Negli stessi anni vengono introdotte anche in Italia, in netto ritardo rispetto al resto del mondo, le trasmissioni televisive a colori, e l’utilizzo del telecomando, dispositivo utile per “governare” le nuove pratiche di zapping. Negli anni Ottanta, insomma, la quasi totalità delle esperienze emerse alla fine del decennio precedente prendono la direzione della televisione commerciale (e dunque, nei contenuti, dell’ intrattenimento): le televisioni libere della prima fase sono diventate, ormai, semplicemente private.

L’anno decisivo è, in questo senso, il 1984. Silvio Berlusconi, dopo aver trasformato nel 1980 Telemilano in Canale 5, e aver acquistato nel 1982 Italia1 da Rusconi, rileva anche Rete 4 da Mondadori, diventando proprietario dello stesso numero di reti (tre) della Rai. Ma soprattutto, trasformando Fininvest nell’unico operatore privato televisivo nazionale. Tra il 1984 e il 1985 il primo Governo Craxi emana tre decreti legge, che passano alla storia come “Decreti Berlusconi”: norme di carattere transitorio che prevedono una deroga alle disposizioni previste dalla Corte Costituzionale del 1976. In altri termini, in attesa di una futura legge sul sistema radiotelevisivo che colmi il vuoto normativo, si legittima temporaneamente la possibilità per Fininvest di trasmettere a livello nazionale (purché le trasmissioni non siano mandate in onda in diretta). Si apre la fase storica che molti osservatori hanno riconosciuto come “duopolio”, situazione che di fatto sarà legittimata soltanto nel 1990 dalla Legge Mammì, che apre in via definitiva a un sistema di concorrenza tra servizio pubblico ed emittenti commerciali, pur prevedendo per lo stato un ruolo di garante.

È dunque a partire da questo decennio che si configura una stretta interrelazione tra televisione e agenda politica. Per riutilizzare le parole di Peppino Ortoleva, se é questo il periodo in cui le televisioni private oscillano tra la consapevolezza, da un lato, delle «profonde corrispondenze fra lo sviluppo della TV commerciale e le contemporanee trasformazioni della società italiana nel suo insieme», assistiamo anche a un «intreccio inestricabile fra sistema politico e sistema televisivo»: come conseguenza «la televisione è divenuta un organo del sistema politico, senza però i contrappesi istituzionali che una situazione del genere dovrebbe comportare».

Quella successiva è storia più nota: l’introduzione della televisione satellitare nel corso degli anni novanta, con Stream e Tele+ sostituite da Sky sotto il controllo del magnate statunitense Rupert Murdoch, passando per lo switch-off dall’analogico al digitale terreste a partire dal 2012, fino ad arrivare alle piattaforme e all’istituzione di un sistema misto in cui il servizio pubblico, pur avendo profondamente mutato pelle rispetto alle origini, sembra in qualche modo resistere. Sul piano dei consumi, si è passati dalla visione pubblica delle origini, passando per l’affermazione di pratiche di domesticizzazione, fino alla visione individuale tramite la moltiplicazione di dispositivi di visione mobili o portatili.

Negli ultimi vent’anni, insomma, l’industria televisiva nazionale ha affrontato quella che è stata definita da alcuni osservatori come una fase di evoluzione “diseguale”: da un lato si è assistito all’emergere di una serie di mutamenti tecnologici che hanno condotto a fenomeni quali digitalizzazione (della produzione, della distribuzione, del consumo) e convergenza, con la conseguente emersione e sempre maggiore pervasività del sistema delle piattaforme; dall’altro, nonostante l’ormai consolidata perdita di centralità degli apparecchi televisivi (dovuta alla moltiplicazione della tipologia di dispositivi attraverso cui diventa possibile fruire, online e non solo, delle trasmissioni), buona parte degli spettatori è rimasta ancora largamente affezionata ai modelli tradizionali di broadcasting.

In questo senso, oggi appare più che mai decisivo riflettere sul ruolo del servizio pubblico all’interno di questa nuova fase di transizione, in un contesto di concorrenza ormai definitivamente aperto a nuovi soggetti nazionali e sovranazionali, sia nell’ambito della televisione a pagamento, sia in quello della televisione free-to-air, fino ad arrivare alle piattaforme over-the-top che, a partire dalla metà del decennio scorso, hanno invaso la sfera pubblica e mediale. La grande sfida del servizio pubblico, così, sembra quella di riuscire a diversificare la propria offerta, sia in termini di contenuti che in ambito tecnologico, ma soprattutto di far convivere soggetti e sistemi diversi (anche extra-nazionali) all’interno della stessa struttura, pur mantenendo ben saldo lo spirito e gli obiettivi del servizio pubblico delle origini.

Riferimenti bibliografici
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