Ridley Scott è sempre stato un regista ossessionato dalle immagini, dalla loro potenza, dalla loro fascinazione, dalla loro capacità di seduzione e di perdizione. Lo è sempre stato, così come costante nel suo percorso è stato il tentativo di percepirne l’artificio, la costruzione, l’artefattualità. L’immagine trionfante e simulacrale di Blade Runner (1982), l’immagine epica dell’eroe (Il gladiatore, Robin Hood, Sopravvissuto – The Martian), l’immagine mitica del racconto fondativo (Thelma & Louise, 1492 – La conquista del paradiso) o l’immagine ironica della sophisticated comedy rivista e corretta (Il genio della truffa, Un’ottima annata).

Più si scorre la filmografia di Scott più ci si convince di trovarsi di fronte all’ultimo rappresentante di un cinema solido, industriale e autoriale insieme, diretto erede della produzione hollywoodiana dell’età d’oro, i cui autori erano capaci di muoversi tra forme e generi diversi attraverso però uno sguardo preciso, personale e costante. Tra alti e bassi, eccessi e scarti, il regista inglese si muove dunque nel solco di un cinema d’effetto e al tempo stesso ben marcato, segnato dalla propria, personale impronta.

Eppure qualcosa sfugge a questa prima lettura. La potenza e il trionfo dell’immagine (e dunque della fabbrica dell’immaginario che il cinema come industria rappresenta) si scontra spesso con il suo esatto contrario. Riattraversando ancora una volta la filmografia del regista inglese ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un percorso parallelo a quello appena riportato; un percorso in cui la visibilità dell’immagine si rovescia in qualcosa d’altro, nell’oscura paura ad essa sottesa, nel buio che la comprende, in una oscurità che sembra rovesciare il mondo visibile (finanche nello spettacolare suicidio di Thelma e Louise o nella morte epica del gladiatore Russell Crowe: pure forme dello spettacolo).

Ecco che allora altre immagini emergono: è il duello freddo, ripetitivo e senza fine di Harvey Keitel e David Carradine ne I duellanti (1977); è lo spazio oscuro dentro e fuori la Nostromo in Alien (1979); è lo spazio claustrofobico della battaglia infinita in Black Hawk Down (2001), l’oscurità che domina l’astronave in Prometheus (2012) o strade, angoli e uffici in Black Rain (1989). Ancora: la notte senza fine di Blade Runner, i corridoi metallici e freddi di Apple Macintosh: 1984. E l’elenco potrebbe continuare.

La visibilità, a volte anche kitsch, dei corpi e delle imprese degli eroi non nasconde lo spazio oscuro, buio e perturbante che abita il cinema di Scott. Ed è proprio questo spazio, spazio teorico in un senso molto preciso, a caratterizzare un film come Tutti i soldi del mondo. C’è qualcosa nel film che colpisce sin dall’inizio, che lavora in direzione di un cinema che mostra ed espone consapevolmente un lato oscuro, notturno, una sorta di rovesciamento dell’epica, della narrazione classica che sempre attraversa il cinema di Scott. La prima sequenza del film, in cui John Paul Getty III cammina per le strade di Roma la notte del suo rapimento immerge immediatamente il film in questa atmosfera: la ripresa, la strada evidentemente ricreata come set cinematografico, il movimento di macchina che segue il personaggio sono evidentemente debitori delle immagini de La dolce vita di Fellini – gli stessi movimenti orizzontali dall’alto, la stessa saturazione di corpi, voci, vite notturne, la stessa mancanza di spazio. È come se l’evocazione felliniana servisse da incipit per un film il cui obiettivo, o il cui senso più profondo sia mostrare la vita artificialmente rinchiusa, serrata in se stessa, soffocata: come nell’artificio del set appunto.

Più il film prosegue, più l’incipit si mostra come il punto d’ingresso ad un film claustrofobico, ossessivamente caratterizzato da interni in controluce o in chiaroscuro e da esterni la cui luce non penetra se non in parte attraverso finestre o vetrate. L’albergo dove Paul Getty accoglie la famiglia a Roma, gli spazi interni in Marocco, gli uffici, le case, e ovviamente la prigione di Paul Getty III sono spazi dove la luce non è mai piena, dove i corpi sono costretti, limitati nei loro movimenti e nella loro visibilità. È un mondo cinematografico condizionato dal controllo, dal limite. La visibilità è limitata, il movimento è limitato. È in fondo l’idea di un cinema costruito interamente attraverso l’artificio o che mostra l’artificio come soffocamento. In un colloquio con Chase, l’ex agente CIA incaricato da Getty di ritrovare suo nipote, il magnate del petrolio, che si circonda di oggetti d’arte, confessa al suo interlocutore che la sua maggiore delusione sono le persone, i loro cambiamenti, la loro imprevedibilità. Gli oggetti non ti deludono, aggiunge, perché fanno esattamente ciò per cui sono stati creati. L’oggetto, l’artefatto o il cinema come set totale, come puro artificio tecnologico.

Nella sequenza finale del film, quando Abigail entra nella villa del suo defunto ex suocero, osserviamo la donna passeggiare lungo i grandi corridoi della villa, passare accanto alle statue, ai dipinti, alle opere di cui l’uomo si era circondato in vita. Ad un certo punto la donna si ferma e osserva un busto che ritrae il magnate. Anche la statua sembra fissarla; in un rapido campo-controcampo, il desiderio dell’uomo sembra realizzarsi: ora Getty è un oggetto, inerte, incapace di deludere perché non più in vita, ridotto a puro simulacro materiale. E, in fondo, cosa c’è di più artificiale della presenza stessa di Christopher Plummer, chiamato all’ultimo momento a sostituire Kevin Spacey nella parte di Paul Getty, a recitare nuovamente tutte le inquadrature precedentemente interpretate dall’attore statunitense, ad essere quindi, sin dall’inizio, replica, simulacro di un’altra immagine, di un altro corpo.

Ecco che allora, dietro la narrazione solida e classica del film, si agita una inquietudine che appartiene profondamente all’opera del regista inglese: la consapevolezza della dimensione artificiale del cinema che si agita dietro ogni immagine; dimensione che se portata sino in fondo rivela la sua natura mortifera, macabra. Tutti i soldi del mondo – al di là della sua struttura narrativa, delle sue forme riconoscibili, dei suoi personaggi cliché – è un film che permette una riflessione sulla natura ambivalente del cinema proprio all’interno della sua dimensione più classica, solida e consapevole, quella della claustrofobia che l’immagine – ogni immagine – in fondo nasconde dentro di sé.

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