L’opera più “teorica” di Verdi. Forse non il suo capolavoro ma quella in cui è maggiormente tematizzato il nesso tra carattere e destino che rappresenta il nucleo centrale della drammaturgia musicale verdiana. Il precipitato dell’impianto mozartiano (Osborne, 1975) all’interno della cultura romantica italiana, la sua resa melodrammatica prima del ritorno al Grand-Operà con Don Carlo e della “svolta” wagneriana di Otello e Falstaff.
La forza del destino, che ha inaugurato la stagione lirica 2024/25 del Teatro alla Scala, è in primo luogo questo. Il più potente manifesto dell’estetica verdiana, il punto limite e il compimento dell’immenso genio di Verdi e della sua capacità di trasformare il medium musicale in un dispositivo drammaturgico come solo Mozart aveva fatto prima di lui. Un’opera struggente, immensa, capace di coniugare tra le pagine più mature del sinfonismo verdiano (si pensi all’Ouverture) con una scrittura corale impareggiabile (La Vergine degli angeli) e l’ennesima prova stupefacente di lirismo musicale trasversale a ogni registro (con la solita sensibilità baritonale di cui Urna fatale del mio destino rappresenta uno dei vertici assoluti).
Un lavoro in cui Verdi condensa il senso più profondo dell’opera italiana ottocentesca e del suo scarto rispetto ai modelli francesi e tedeschi. La grande forma in cui il dispositivo musicale è al servizio di un soggetto messo al cospetto di un’oggettività valoriale complessa (come in Mozart), costruendo un equilibrio perfetto tra interiorità ed esteriorità, senza lasciare che la prima predomini sulla seconda (come nell’opera tedesca di impianto wagneriano) o viceversa (come nel Grand-Operà francese). Con l’unica differenza, rispetto al modello mozartiano, che laddove l’oggettività era l’impianto universalistico a cui il personaggio doveva eticamente adeguarsi per non soccombere (da Don Giovanni a Così fan tutte), qui assume la “forza” romantica del “destino”, cioè la sua ineludibilità puramente umana. È la cifra di un’intera tradizione culturale che Verdi ha incarnato più di ogni altro autore, che ha il suo contraltare speculare nel concetto di “provvidenza” manzoniana, e che lo rende il più grande artista dell’Ottocento italiano.
La versione che ha aperto la stagione scaligera è quella del 1869, scritta appositamente per La Scala dopo la prima di San Pietroburgo del 1862. Si tratta della versione entrata nel repertorio, in cui, tra le altre cose, è presente la celebre sinfonia (assente dalla prima versione russa) e lo straordinario coro maschile della ronda del III atto. E proprio in questo ritorno al Verdi melodrammatico maturo Riccardo Chailly sembra aver ritrovato una maggior coerenza interpretativa rispetto a quella del Verdi “francese” del Don Carlo che aveva inaugurato lo scorso anno. Gli viene in aiuto un cast stellare (basti citare Anna Netrebko e Ludovic Tézier) e una regia di Leo Muscato che, pur con qualche cedimento, cerca di dare del testo di Francesco Maria Piave (ispirato a un dramma di Ángel de Saavedra del 1835) una lettura lucida e originale, trasponendolo in quattro epoche diverse (una per ogni Atto) e facendone emergere i tratti pacifisti e anti-militaristi. Ottima nel suo complesso la prova dell’orchestra, capace di gestire con grande equilibrio e forza espressiva le transizioni tragicomiche della partitura e le sue componenti lirico-drammatiche, e del coro diretto da Alberto Malazzi in grado di passare dal possente registro liturgico del Monastero degli Angeli a quello più leggero e brillante dell’accampamento militare.
Rimangono tuttavia intatte le perplessità già espresse l’anno passato su una direzione artistica di cui, nonostante il livello alto della resa musicale, si stenta a comprendere le scelte. Non si capisce, per esempio, perché nell’anno pucciniano La Scala non abbia dedicato ampio spazio al compositore toscano, dopo aver aperto nel 2016 e 2019 con due dimenticabili edizioni di Madama Butterfly e Tosca (unica opera pucciniana in stagione riproposta nella produzione Chailly/Livermore). Un anniversario, sia detto per inciso, mancato da una parte importante delle istituzioni musicali italiane, con la principale eccezione di Santa Cecilia che ha aperto la stagione sinfonica con una versione di Tosca in forma di concerto. Non si capisce poi come un teatro che si lancia in una nuova produzione del Ring wagneriano decida di relegarlo a fine stagione (Das Rheingold è andato in scena lo scorso ottobre). Oppure che senso abbia mettere due titoli verdiani uno accanto all’altro in apertura (il Falstaff diretto da Daniele Gatti con la storica regia di Strehler andrà in scena a gennaio 2025). E via discorrendo. Tutto sembra apparentemente casuale e non orientato da una politica artistica precisa, che pensi La Scala come l’avamposto di un’intera cultura musicale e non un semplice teatro di repertorio.
Verrebbe in conclusione da dire che è stato un 7 dicembre di alto livello nonostante tutto. A cominciare dalla sua resa televisiva sul cui format Rai si preferisce stendere, come in passato, un velo pietoso.
Riferimenti bibliografici
C. Osborne, Tutte le opere di Verdi. Guida critica, Mursia, Milano 1975.
La forza del destino. Testi: Giuseppe Verdi; regia: Leo Muscato; direzione: Riccardo Chailly; libretto: Francesco Maria Piave; orchestra e coro: Teatro alla Scala; interpreti: Fabrizio Beggi, Anna Netrebko, Ludovic Tézier, Brian Jagde, Vasilisa Berzhanskaya, Alexander Vinogradov, Marco Filippo Romano, Marcela Rahal, Huanhong Li, Carlo Bosi, Xhieldo Hyseni; produzione: Teatro alla Scala; durata: 3h53′; anno: 2024.