Quando l’anno scorso il Teatro alla Scala inaugurava la sua stagione con una bella edizione del Boris Godunov di Musorgskij (mai così tanto attuale) sembrava chiudersi una fase di evidente declino dell’istituzione musicale milanese. La direzione artistica di Riccardo Chailly aveva deluso sul piano delle scelte di repertorio (orientate dall’inefficace quanto incerto proposito di riportare al Piermarini le opere che avevano avuto lì la prima rappresentazione assoluta) e aveva attraversato male il periodo Covid. Il Boris pareva rappresentare uno scarto nel senso di una rinnovata energia del teatro scaligero che aveva perso il passo a favore di altri teatri italiani come Roma, Bologna, Venezia, Napoli.
Un anno dopo ci troviamo invece a commentare la prima del Don Carlo di Verdi nuovamente alle prese con le perplessità che il Boris Godunov ci aveva fatto per un momento dimenticare. Innanzitutto questo Don Carlo apre una stagione sulla carta abbastanza sottotono che trova i suoi momenti più importanti (l’esordio di Kirill Petrenko sul podio con Der Rosenkavalier di Richard Strauss e il Das Rheingold che prelude a una nuova Tetralogia wagneriana nel 2025) “relegati” a fine stagione a ottobre 2024, quasi fossero un’appendice prima di un nuovo 7 dicembre televisivo (che, sia detto per inciso, verrà inaugurato con un altro titolo verdiano, La forza del destino). In secondo luogo, è proprio la scelta del Don Carlo a lasciare perplessi, trattandosi del titolo che più volte ha inaugurato le stagioni della Scala nella sua intera storia (questa è la sesta) di cui l’ultima solo quindici anni fa, nel 2008.
La realtà è che Chailly sembra aver capito più di chiunque altro che la prima alla Scala non è più un appuntamento musicale ma l’evento di punta (anzi l’unico evento) della cultura “alta” televisiva generalista italiana. Un format televisivo che media tra musica lirica e pubblico di prima serata (A riveder le stelle realizzato con Davide Livermore nel 2020 ne è in qualche modo la summa) e che implica la scelta di grandi titoli del repertorio romantico o verista italiano senza che ci sia una politica direzionale precisa. Il prezzo da pagare è altissimo e fondamentalmente consiste nell’abbandonare il ruolo di guida che la Scala ha da sempre giocato all’interno della cultura musicale del nostro Paese.
Negli anni ’80-‘90 Riccardo Muti aveva puntato sulla riscoperta filologica del repertorio verdiano, su Mozart e sul classicismo (Gluck, Spontini, Salieri, Rossini), nei Duemila Daniel Barenboim aveva tentato di germanizzare il repertorio (aperture con Tristan und Isolde, Die Walküre, Lohengrin e Fidelio). Con Chailly assistiamo al susseguirsi più o meno consapevole di opere del repertorio melodrammatico italiano (dal 2016 Madama Butterfly, Andrea Chénier, Tosca, Macbeth solo per citarne alcuni) senza che ci sia una logica convincente che non sia la loro “spendibilità” (si fa per dire) televisiva. Praticamente la prima alla Scala è diventata la versione invernale di Caracalla, un susseguirsi di spettacoli a uso e consumo di turisti della musica collegati in diretta televisiva invece che di spettatori.
La scelta di un grande capolavoro come il Don Carlo di Verdi sarebbe ovviamente ineccepibile se fosse pensata all’interno di un’ottica di filologia verdiana, come voleva Muti, o di qualsivoglia altra strategia musicale, e non di una miscellanea priva di apparente organicità o, nelle intenzioni, quale tassello di un’astratta “trilogia del potere” che lo legherebbe ai titoli delle ultime due inaugurazioni (Macbeth e Boris). La vocazione storica del teatro milanese di educare, valorizzare e diffondere l’immenso repertorio musicale italiano dal Rinascimento al contemporaneo sembra essersi del tutto smarrita, mentre viene presa in carico da altri teatri che la stanno portando avanti con intelligenza. A partire dal nuovo corso dell’Opera di Roma guidata da Michele Mariotti, che pochi giorni fa ha proposto una produzione molto riuscita di un capolavoro del repertorio minore italiano come il Mefistofele di Arrigo Boito.
Cos’è dunque il 7 dicembre oggi? Da quando la televisione ha deciso di proporlo in diretta televisiva l’evento ha a poco a poco mutato la sua natura trasformandosi da celebrazione culturale (politico-mondana) a tentativo mal riuscito di coniugare l’“alto” della tradizione operistica con il “basso” del gusto nazional-popolare catodico. Il prodotto televisivo stesso si è modificato sostanzialmente nel tempo. Le prime edizioni (a partire dal Tristan di Wagner diretto da Barenboim con la regia di Patrice Chéreau nel 2007, primo 7 dicembre tramesso in tv) passavano sul canale europeo Arte ed erano impostate in modo estremamente serio, attraverso il commento di musicologi e più in generale su di una conduzione di stampo radiofonico specialistico. Negli anni, con il passaggio alla Rai, i musicologi sono stati sostituiti da personaggi televisivi più o meno noti, il commento è passato dall’opera al costume, la conduzione in stile Radio Tre Suite è diventata un prime time televisivo con Bruno Vespa e Milly Carlucci. Di conseguenza, soprattutto nella staffetta tra Barenboim a Chailly, la programmazione è ricaduta su titoli principalmente legati al repertorio popolare italiano (Puccini, il verismo) o su opere di cui è comunque possibile “parlare” al di là di qualsiasi valore e competenza musicale e teatrale.
Il Don Carlo, che contiene alcune delle pagine più belle della musica ottocentesca, è ridotto a un’imbarazzante discussione da salotto in stile Porta a Porta a cui il palco del Piermarini presta funestamente il fianco perché decide di legittimarsi in nome di categorie astratte, “comprensibili”, autoreferenziali e interamente spettacolari, come se il valore musicale dell’opera potesse essere completamente eluso.
Ecco perché, venendo brevemente allo specifico di questa edizione vista rigorosamente in televisione, si può certamente apprezzare la solida direzione orchestrale di Chailly e la qualità altissima dei cantanti (star mondiali del calibro di Anna Netrebko e Michele Pertusi), in un’interpretazione di livello che tuttavia nulla aggiunge all’ermeneutica del capolavoro verdiano. Allo stesso tempo, c’è oggettivamente ben poco da dire sulla messinscena di Lluís Pasqual se non che non rovina o banalizza troppo la potenza musicale dell’opera (e anche nella selezione dei registi il direttore artistico ha già dato prove problematiche in passato). Ma, in definitiva, dal teatro che nel 1977 aveva aperto con l’edizione filologica parigina del Don Carlo del 1867 con la direzione di Claudio Abbado e la regia di Luca Ronconi sembrano passati anni luce, o forse anni catodici.
* La foto in copertina è di Brescia E Amisano ©Teatro Alla Scala.
Don Carlo. Testi: Giuseppe Verdi; regia: Riccardo Chailly; direzione: Riccardo Chailly; libretto: Joseph Méry, Camille du Locle; orchestra e coro: Teatro alla Scala; interpreti: Michele Pertusi, Francesco Meli, Luca Salsi, Jongmin Park, Huanhong Li, Anna Netrebko, Elīna Garanča, Elisa Verzier, Jinxu Xiahou, Rosalia Cid, Chao Liu, Wonjun Jo, Huanhong Li, Giuseppe De Luca, Xhieldo, Hyseni, Neven Crnić; produzione: Teatro alla Scala; durata: 4 2′; anno: 2023.