
Il reale è ciò che smaschera la recitazione.
A. Badiou, Alla ricerca del reale perduto
Nei titoli di testa e di coda del nuovo film di Costanza Quatriglio si sottolinea che l’opera è tratta da una «storia vera», quasi a voler rimarcare l’autenticità dell’ispirazione. Se si sfogliano le pagine del pressbook, però, si incontra un’affermazione che, apparentemente, incrina l’orizzonte del racconto: «Verità e finzione non esistono». Cosa giace allora al fondo di Sembra mio figlio? Su quali strategie retoriche è costruita la diegesi?
È un principio di feconda contraddizione ad animare l’esperienza del “cinema dell’attenzione” della regista, da sempre votato allo scarto, all’infrazione del codice di realtà attraverso la messa in campo di uno sguardo capace di riarticolare, grazie a un’intensa vocazione sperimentale, quella “doppia origine” che Daniele Dottorini – sulla scorta di Badiou – pone a fondamento non solo del cosiddetto cinema del reale ma del cinema tout court (Dottorini 2018). L’ultima opera di Quatriglio conferma l’adesione a una pratica documentaria che non si dà come cinéma-vérité ma che crede fermamente nella «verità del cinema» (Deleuze 1989, p. 168), ovvero nella forza delle immagini come antidoto all’impero della visibilità (Mondzain 2002), e su questa via edifica un modo di girare che sembra richiamare soprattutto Rouch e Kiarostami. Del primo Quatriglio rilancia la centralità della relazione come incubatrice di visioni, l’importanza del contatto come agency della storia e del destino stesso delle persone-personaggi. Da Kiarostami la regista eredita un peculiare sentimento del tempo, che si configura ora nei lunghi intervalli dell’“infra-ordinario”, nelle dolenti trasparenze dell’attesa, ora invece nei vortici dell’ellissi.
Accanto alle diverse sfumature di ogni evento filmato, da ricondurre al modello di micro-situazioni che effettivamente ricorda il “realismo di piccola forma” del maestro iraniano, sussiste anche un senso vivo del paesaggio, che orienta gli ingranaggi del racconto in qualità di «elemento “operante” all’interno del dispositivo cinematografico» (Dottorini 2018, p. 100). È nel segno dell’impurità, pertanto, che si consuma la ricerca di Quatriglio, nella convergenza di un doppio movimento (documentario e di fiction) che dà risalto ai corpi e alle storie, inventate dal vero e distillate tramite puntuali traiettorie di sguardo.
Bisogna risalire fino al 2005 per trovare la scintilla di Sembra mio figlio: la traccia seminale è ancorata alla voce e al volto di Mohammad Jan, uno dei giovani protagonisti de Il mondo addosso con cui la regista – dopo il successo de L’isola (2003) – esplora un’altra idea di cinema, «fatta di prossimità» e di ascolto. Le testimonianze di quel gruppo di ragazzi migranti, giunti a Roma con grande fatica da diversi angoli del pianeta, lasciano emergere un devastante senso di abbandono e di perdita per aver dovuto lasciare la famiglia, ma non escludono del tutto il registro della pietà. Dispersi negli spazi grigi di una metropoli per lo più assente, i loro corpi tentano di aprirsi un varco, sorretti dalla carezza della macchina da presa, già in grado di aderire alla superficie delle emozioni. Il procedere volutamente frammentario della narrazione, deciso a riprodurre gli ostacoli incontrati dai minori nel dare una direzione alla propria esistenza, trova un appiglio nel viso teso e aperto di Mohammad, che diviene l’immagine-guida dell’opera.
È la sua storia a condensare la parabola del film, a cicatrizzare l’orrore della guerra in Afghanistan attraverso l’esercizio della solidarietà nei confronti di altri minori in cerca di accoglienza e riparo. Mohammad Jan, infatti, non ancora maggiorenne diviene educatore di strada e così sceglie la fratellanza come modello di esistenza. La consapevolezza maturata nel tempo, grazie anche al supporto di molti operatori di centri specializzati, consegna alla sua linea espressiva dei tratti sicuri, che però si incrinano quando si fa largo il ricordo della madre. Bastano poche parole a rivelare la fragilità del suo animo («Forse un giorno, tra loro, incontrerò qualcuno che conosce la mia famiglia, qualcuno a cui chiedere notizie di mia madre») e a consegnare a chi guarda la chiave di lettura dell’opera: l’unico antidoto alla solitudine è la speranza del ritorno a casa, o almeno la certezza di non aver perduto gli affetti più cari.
Dopo alcuni anni lo sguardo di Mohammad Jan torna ad affacciarsi sullo schermo grazie all’intuito drammaturgico di Quatriglio, che mette in scena i tentativi di dialogo del personaggio con la madre. Breve film di amore e libertà (2010) è un esercizio di stile in cui, in appena dodici minuti, si consuma il dramma di una relazione a distanza, affidato a una geometrica disposizione di gesti e pose. Il telefono diviene strumento di diffrazione dello spazio e del tempo, la voce senza corpo della madre satura il quadro e riproduce, secondo un principio di differenza e ripetizione, la catena mitopoietica della negazione e del riconoscimento. Lungi dall’essere un happy ending, l’agnizione finale rientra nel canone di una favola triste, in cui i grumi della memoria del sangue si sciolgono a contatto con il fuoco della Storia.
Seguendo il modello bressoniano del trapianto («Immagini e suoni si rafforzano trapiantandoli», Bresson 2008, p. 98), Quatriglio continua a intrecciare i fili di questa vicenda e giunge, attraverso una lunga elaborazione del soggetto, alla definizione del plot di Sembra mio figlio. Le centinaia di pagine raccolte nell’arco di cinque, sei anni, diventano la base per inventare una storia che entra ed esce dalla realtà, tutt’intorno a un giovane uomo chiamato Ismail, a due fratelli, a una famiglia, a un popolo. Un allargamento graduale in cui il fuori campo entra progressivamente in campo nel segno di una presenza, quella della madre, condannata all’assenza dall’imperitura legge del più forte.
Per inventare il vero Quatriglio si affida alla collaborazione di Doriana Leondeff come co-sceneggiatrice (con la supervisione dello stesso Mohammad Jan Azad) e alla vibrante interpretazione di Basir Ahang e Dawood Yousefi, rispettivamente nei panni di Ismail e Hassan due fratelli Hazara rifugiati in Europa, a cui si aggiunge Tihana Lazovic, che recita la parte di Nina, amica e collega di Ismail. La trasformazione del nucleo narrativo originario avviene nel segno dell’analogia: nel passaggio dal documentario al cortometraggio al film di finzione sorprende l’insistenza per gli scenari notturni (anche se a Roma subentra una Trieste appena riconoscibile, immersa nelle luci flou di strade, negozi e vetrine colorate), nonché la ripresa del tema del telefono, che assume in Sembra mio figlio una chiara sfumatura simbolica e diviene metafora della complicata dialettica fra vedere (ascoltare) e potere, non senza implicazioni di natura sentimentale (dal momento che il fantasma materno è senza dubbio il perno attorno cui ruota la vicenda).
La somiglianza fra Mohammad Jan Azad e Basir Ahang è una sfumatura preziosa nel disegno del film, perché conferma in un certo senso la maledizione degli Hazara (Ismail in uno dei dialoghi più intensi rivela a Nina: «La nostra faccia è la nostra condanna. La forma dei nostri occhi non la possiamo nascondere») ma anche perché richiama una intensa inclinazione messianica: oltre a presentare evidenti tratti fisiognomici in comune, entrambi incarnano il modello di un Cristo orientale, generoso e prodigo verso gli altri, disposto al sacrificio e al dono di sé. L’inclinazione posturale di Ismail è resa poi ancora più interessante dal fatto che Basir Ahang è un poeta che si fa attore, a cui Quatriglio affida il respiro della sua lingua-madre, che si distende per tutta la durata del film, interrotto soltanto dagli scambi in italiano fra il personaggio e Nina: la dissonanza dell’idioma Hazara consente allo spettatore di cogliere la radice identitaria di questo popolo, la mitezza di toni trasformati in straziato corpo sonoro.
Quella di Ismail è, fin dalle prime inquadrature, una poesia dello sguardo e del gesto, un misterioso effetto di presenza che lo trasforma in figura dell’attraversamento e della ri-velazione: nel primo lungo tempo del film, in cui viene declinata la sofferta relazione con il fratello Hassan e la tenera amicizia con Nina, è ripreso quasi sempre dietro vetri, saracinesche, cancelli e porte, mentre si sposta su diversi mezzi di trasporto, che segnano il perimetro di un margine. Tramite la messa in campo di peculiari marche della dispersione e del ricongiungimento Trieste appare come luogo di confine, come soglia in cui sembra più facile perdersi che ritrovarsi.
Il racconto è scandito dalla precisione dei dettagli, da una chirurgica geometria dei raccordi che disegna un gioco di accenti e distanze: fra Ismail e Hassan, che tentano una conciliazione impossibile; fra Ismail e Nina, che provano a vivere il miraggio del desiderio ma non possono opporsi alle spinte del destino. Nella sequenza che di fatto chiude la prima parte del film li troviamo immersi nella luce meridiana del paesaggio dell’infanzia di Nina, finalmente vicini e capaci di raccontarsi: superando l’imbarazzo e la reticenza che fino a quel momento aveva scandito i loro incontri, riescono a condividere l’intimità del passato e a specchiarsi ognuno nello sguardo dell’altro, senza più filtri a separare le loro vite. L’estatica singolarità di questo istante vale più di ogni storia d’amore: nella reciprocità dei loro gesti si intravede infatti una accecante promessa di futuro.
La brusca irruzione nel secondo tempo del film, ambientato in Pakistan nella finzione del racconto ma in realtà girato in Iran, determina un netto cambio di passo e di tono: è qui che il fuori campo prende il sopravvento rispetto alla stretta angolatura dei piani della prima parte, è qui che il cinema di Quatriglio fa i conti con l’incandescenza del reale (e con le strategie per reinventarlo). Anticipando una drammatica sequenza notturna, in cui lentamente si svela – attraverso una vertiginosa ellissi – il destino di Hassan, assistiamo a una delle scene più commoventi, una veglia di preghiera, in cui esplode la vibrazione del coro: l’esistenza di Ismail incontra la tragedia di un intero popolo, il suo dolore, la sua ansia di giustizia e di pace si moltiplicano attraverso un effetto à la Dreyer.
La sinfonia di volti composta da leggeri movimenti di macchina è il preludio della vera “scena madre” del film, durante la quale, dopo un periglioso viaggio tra le venature delle montagne, Ismail deve scegliere la donna che corrisponda al sogno di colei che lo ha generato, ma con uno scarto poetico decisivo è lui a essere riconosciuto come figlio. La commossa eloquenza dei volti di queste donne è senza dubbio il punto di non ritorno del viaggio per immagini di Sembra mio figlio, nonché la conferma della maturità di sguardo di Quatriglio, capace di spingersi non solo dentro l’impervia geografia di un paesaggio lunare ma di giungere alla radice di ogni violenza. Gli occhi stropicciati e gonfi di pianto su cui indugia la sua macchina da presa nel finale ci ricordano allora che «Le facce come le case, / sono cinema, sono cenere» (Candiani 2014, p. 10).
Riferimenti bibliografici
R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2008.
C.L. Candiani, La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, Torino 2014.
G. Deleuze, L’immagine tempo, Ubulibri, Milano 1989.
D. Dottorini, La passione del reale, Mimesis, Milano 2018.
M.-J. Mondzain, Il commercio degli sguardi, Medusa, Milano 2011.