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Il film rivelazione dell’ultima edizione del Sundance continua a “fare problema”, a costringere lo spettatore a interrogarsi su ciò che sta guardando sullo schermo, a chiedersi quanti significati può ancora avere la parola “schermo”. Viene in mente una frase di Herzog: «lo schermo è una finestra direttamente affacciata sul precipizio dell’ignoto». Una frase che è un’idea di cinema, un’immagine potente di ciò che il cinema può fare. Ripensando a queste parole però, le immagini di Searching, opera prima del regista per caso Aneesh Chaganty, sembrano andare in un’altra direzione, sembrano cioè lavorare il senso del termine “schermo” in un altro modo.

Ma rimaniamo sulla domanda iniziale: chiedersi cosa possiamo intendere quando parliamo di schermi significa chiedersi cosa il cinema può fare quando lo schermo diventa l’oggetto del film o ancora, diventa il suo spazio, il suo paesaggio. Negli ultimi anni sono molti i film che hanno messo in gioco le nuove tecnologie digitali, le pratiche quotidiane che attraversano la nostra vita. Nell’ambito del cinema del reale, queste dinamiche stanno diventando uno dei terreni di sperimentazione più aperta; film che montano insieme pagine di YouTube, autoritratti composti da video di Snapchat o dirette di Instagram: film che provano a riflettere su una realtà onnipresente nella nostra vita, incorporandone le pratiche, le tempistiche, le modalità espressive. Schermi che utilizzano altri schermi, mostrando il cortocircuito tra le rappresentazioni di sé che si moltiplicano nei social.

Un film come Searching sembra andare in questa direzione, ma in realtà scarta sensibilmente da essa, concentrandosi invece su altro. Le opere del cinema del reale e sperimentale che lavorano con le immagini effimere dei social devono giocoforza inventare nuove narrazioni, trovare delle forme in grado di fare di quelle immagini il vero centro dell’interrogazione, il reale a cui porre la domanda sul suo ignoto.

Il film di Chaganty, non a caso ex dipendente di Google, autore di cortometraggi promozionali per la Big G – tra cui un video su uno dei prodotti di punta del marchio, quei Google Glass le cui immagini sembrano quasi anticipare, metaforicamente la struttura del film – si concentra invece su un aspetto specifico delle nuove tecnologie, ingigantendolo sino a renderlo inquietante. La struttura del film è infatti quella, riconoscibilissima, del thriller poliziesco, del detective movie, in cui un padre rimasto vedovo, indaga sulla scomparsa della figlia a partire dalle tracce lasciate dalla ragazza sul suo computer.

Lo schermo del film è dunque, sin dall’inizio e in ogni inquadratura, riempito con altri schermi, mail, messaggi di testo, foto, video, schermate di chat e videochat, immagini di telecamere di sorveglianza, immagini di servizi televisivi. David, il padre, cerca senza sosta tra quelle immagini, quelle mail e il racconto si sviluppa come un montaggio di tracce e di interpretazioni di quelle tracce. David, andando avanti nella sua ricerca, scopre sempre di più sul mondo di sua figlia, ma di fatto, scopre ciò che ne rimane nel suo spazio telematico, nell’universo racchiuso nei file del suo computer.

Lo schermo (o meglio la proliferazione degli schermi) occupa dunque la totalità dello spazio visivo. Più di dieci anni prima, Brian De Palma aveva fatto qualcosa di simile (e al tempo stesso qualcosa di radicalmente diverso) in Redacted (2007), in cui la narrazione dello stupro e dell’assassinio di una ragazza in Iraq da parte di un gruppo di annoiati marines veniva restituito attraverso le immagini di video amatoriali, telecamere di sorveglianza, registrazioni ufficiali, mail. Ma era appunto qui il senso dell’operazione di De Palma.

Il film restituiva a quei documenti (che erano stati secretati dalle autorità militari) una nuova visibilità attraverso il cinema, ricostruendoli ex novo. La dimensione politica del film di De Palma, diventa altro in Searching. Qui gli schermi diventano di fatto, da una parte il motore stesso della detection (è il computer della ragazza, rimasto a casa, il luogo principale da cui David compie le sue ricerche); mentre, dall’altra, sembrano porsi come unico spazio possibile, unico luogo dove una realtà è decodificabile. Nella logica del film, la ricerca ha senso e giunge ad una conclusione grazie a questa sostituzione di paesaggi, grazie al mondo che si trasforma in schermo-traccia, non solo per il padre-detective, ma anche per lo spettatore, che ricostruisce e segue ogni brandello della storia grazie a tutti gli elementi che scorrono di fronte ai suoi occhi.

Il termine schermo raggiunge allora qui un’altra connotazione, fa riferimento ad un altro significato. Se lo schermo a cui faceva riferimento Herzog è un passaggio (una finestra appunto) che non dispiega il mondo, ma permette di vederlo altrimenti – ed è quindi aperto sulla sua dimensione misteriosa, non immediatamente decodificabile – in Searching lo schermo dice tutto, ogni suo elemento è in grado di portare avanti la narrazione, senza scarti, senza fuori campo. Lo schermo è allora qui, propriamente, non ciò che apre ad un nuovo sguardo, ma ciò che lo scherma appunto, che traduce la narrazione (cioè il mondo) in linee comprensibili. Certo, ci sono improvvisi cambi, colpi di scena, come da migliore tradizione del genere, ma ciò che rende il film particolare è proprio in un certo senso l’aver scelto la detection come struttura narrativa. Laddove la detection non incontra scarti, residui, fuori campo, essa coincide con il mondo stesso, appunto senza residui. Tutto, lo abbiamo detto, avviene nello schermo che contiene tutti gli schermi possibili.

Da questo punto di vista Searching è un film modello, la perfezione schematica del cinema di genere, il suo scheletro che non ha più bisogno di carne. Di più, i corpi che appaiono nel film, tutti rigorosamente “mediati”, rigettano ogni teoria e pratica del fantasma, del corpo che riappare dalla morte (la madre). Quell’immagine non infesta, non perturba, essa è archiviata in cartelle del computer, rivedibile a piacere o archiviabile senza problemi. La finestra è chiusa e lo schermo inquadra la sua cornice, le impronte e i riflessi di chi abita la stanza. È un mondo certo o, meglio, sono le tracce di un mondo, ma è un mondo opaco, come il suo schermo. Forse proprio per questo, paradossalmente, il film di Chaganty coglie, meglio di altri (o in modo più inquietante), le mutazioni attuali dello sguardo, il desiderio di un mondo tracciabile, sia esso interiore od esteriore.

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