Se un macellaio va in guerra

di ANTONIO TRICOMI

Il macellaio di Sándor Márai.

Si ricorderanno, forse, le tesi avanzate da Ernst Jünger in un libro del 1922: La battaglia come esperienza interiore. Ligio a un nietzschianesimo di cui pur tuttavia esasperava la polemica anti-borghese, fin quasi a tradurla in un rifiuto della modernità tout court che il maestro non avrebbe probabilmente condiviso, lo scrittore vi analizzava il primo conflitto mondiale. Giudicandolo l’occasione che permise al «vero uomo» di riaffiorare: di mettersi alle spalle «un’epoca ebbra di materia», e nella quale si considerava il progresso «il massimo coronamento» del vivere assieme, per recuperare piuttosto, «in un’orgia febbricitante, tutto il tempo perso». Per consentire cioè ai propri «istinti, troppo a lungo frenati dalla società e dalle leggi», di tornare a dimostrarsi «l’unica cosa sacra, la ragione ultima», sì da rendere quanto «nel corso dei secoli [ne] aveva modellato il cervello in forme sempre più raffinate» una risorsa semplicemente utile «ad aumentare la furia del pugno – all’infinito».

Perché la Grande guerra, sostiene in altre parole Jünger, seppe finalmente destare la «bestia» che «continua[va] a dormire» nell’uomo, favorendo la «rinascita» di una «barbarie» che, per parte sua, promosse a esclusivi principi di autodeterminazione dei singoli «l’energia, la forza bruta, il coraggio virile». Quanti furono al fronte capirono perciò, assai prima di chi era invece rimasto a casa, che toccherebbe comunque, a ciascun individuo, assecondare il cruento «dinamismo» del creato, abiurando qualsivoglia inclinazione speculativa a vantaggio di un irriflesso agire in cui possa cogliersi quel «che di elementare e grandioso che è sempre stato e sempre sarà, anche quando non ci saranno più né uomini e né guerre» (Jünger 2014, pp. 15-16, 19, 47, 140).

Il macellaio, pubblicato nel 1924, è un racconto straordinario, e anzi – soprattutto per la prima delle sue tre porzioni di testo – indimenticabile. Anche perché Sándor Márai sa impeccabilmente dimostrarvi come le varie spinte a una specie di belluino nichilismo “attivo” effettivamente diffusesi tra i soldati nelle trincee del primo conflitto mondiale, e così ben descritte, appunto, da Jünger, non preludessero affatto al ripudio di quello che costui riteneva il filisteo nichilismo “passivo” connaturato alla piena modernità, ma, semmai, di esso risultavano la paradossale manifestazione massima, incaricandosi di condurre gli individui persino a sacrificare convintamente le loro vite in difesa dello stesso, scricchiolante ordine borghese dalla cui crisi patente, e nella pur vana speranza di risolverla, la guerra era scaturita. E, per capire in che senso Il macellaio voglia dar conto di tale evidenza, davvero è sufficiente richiamarne la trama. O meglio, riepilogare, almeno per sommi capi e con le parole stesse di Márai, il percorso formativo vissuto da Otto, il protagonista.

Costui è infatti concepito dopo che un sellaio, pervaso in «tutto il suo essere» dall’«ossequio per l’autorità», e la sua fin lì «sterile e sempre mesta consorte» avevano assistito – in una serata nella quale fin dal principio l’«atmosfera» era parsa a ciascun convenuto «carica di inquietanti presagi» – a un «selvaggio gioco circense» culminato in un «primordiale», rivoltante spettacolo: quello di una domatrice sbranata da un orso. E allora, Otto nasce non solo in una «fervidamente devota famiglia protestante», ma anche, con tutta probabilità non a caso, «di dieci mesi e con i denti», cioè già pronto ad azzannare animalescamente il mondo.

Egli si rivela quindi solerte nel discernere, ancora ragazzino, la sua vocazione autentica: quella di far «stramazzare a terra» mucche sotto la propria scure di macellaio, sì da provare ogni volta, al cospetto di tali carcasse, «una sorta di gioia trionfale». E si dimostra non meno felice, più tardi, di «aprire la pancia» ai nemici nelle trincee della Grande guerra, entusiasta di saper in tal modo concretamente offrire il proprio indiscutibile talento omicida, e dunque intera l’innata «propensione alla brutalità», a «tutti quei poteri che sin dal primo istante della sua vita aveva conosciuto e riconosciuto come assoluti e ineludibili», vale a dire «lo Stato, il capo dello Stato per grazia di Dio, la religione, la patria».

Tuttavia, di ritorno dal fronte, Otto non saprà più trovare «il proprio posto» in un mondo pur sempre costituzionalmente borghese, ma tale in forma troppo disordinata, per cui osceno, ai suoi occhi, sia perché segnato appunto da un eccessivo allentarsi della «disciplina», sia perché restio ad ammettere che la guerra, la santa guerra ferinamente borghese, è «davvero un’altra cosa». Di conseguenza, prima di essere assicurato alla giustizia e, reo confesso, di suicidarsi nella propria cella, egli giungerà a sfogare la sua ancestrale, «ansiosa scontentezza» sui corpi, scrupolosamente tagliati «a pezzi» e fatti scomparire, di sette donne (Márai 2019, pp. 19, 10, 12, 13, 9, 17, 23, 59, 63, 50, 71, 75, 82, 97).

Alla fine, in una Germania uscita con le ossa rotte dal primo conflitto mondiale, il feroce desiderio di vita, obbedienza e morte, ossessivamente nutrito dal protagonista del Macellaio, si tradurrà insomma nel sintomo, e diverrà il precoce braccio armato, della richiesta avanzata – al principio in forma implicita, ma poi vieppiù scopertamente – dall’intera società: quella di ripristinare per via autoritaria la piena, assoluta vigenza del giusto appena slabbratosi, mai però tramontato, antico assetto patriarcale, classista, repressivo. Una richiesta che, come sappiamo, non tarderà molto ad essere accolta, culminando nella legittimazione della totalitaria, distruttiva, autodistruttiva bestialità nazista.

Forse perché – stando almeno ai versi di un componimento, La questione «Führer», da un punto di vista genetico, licenziato nel 1931 da Erich Kästner, di cui, col titolo Conosci quella terra ove fioriscono i cannoni?, è stata da poco approntata, in traduzione italiana, un’antologia poetica – ai tedeschi, che gli rimproveravano di non aver creato un «qualche Führer» destinato a loro, Dio rispose, «sbigottito», precisando che «si deve proprio fare senza Führer», e quindi «amorevolmente con un senza» abbandonandoli sereno «alla storia universale». Egli non poteva infatti in alcun modo immaginare – lascia seraficamente intendere lo scrittore – che un padrone sempre nuovo, cui di volta in volta sottomettersi, quei suoi figli, evidentemente incapaci di volersi liberi, non avrebbero però mai rinunciato, nel corso dei secoli, a darselo (Kästner 2019, p. 137).

Riferimenti bibliografici
E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato 2014.

E. Kästner, Conosci quella terra ove fioriscono i cannoni?, a cura di A. Focher, Donzelli, Roma 2019.
S. Márai, Il macellaio, Adelphi, Milano 2019.

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