Se non fosse una questione molto seria, si sarebbe quasi tentati di farne un problema estetico. Nel film di Daniele Luchetti La scuola (1995), i ragazzi immaginano la scuola ideale, la progettano, la disegnano. Nella scuola ideale ci sono impianti sportivi, un ristorante, una piscina con piattaforme e trampolini per tuffi olimpionici, un museo e una discoteca, la sauna (normale e finlandese), ci sono le camere da letto per fare l’amore, il pronto soccorso per le crisi d’astinenza e il laboratorio contro l’Aids. Non è prevista una sala professori, e mancano le aule. Vivaldi e la Majello si guardano, ridono: l’idea sembra provocatoria, eppure la situazione eccezionale che si sarebbe determinata venticinque anni dopo avrebbe fatto sembrare l’idea ad alcuni quasi un’opportunità. L’improvvisa accelerazione dovuta all’epidemia di Covid-19 ha calato improvvisamente il mastodonte della scuola nel futuro, mostrando la necessità di adeguarsi rapidamente a uno stato di emergenza epocale e coinvolgendo tutti quelli che la vivono quotidianamente: studenti, famiglie, lavoratori.

Il ricorso alla didattica a distanza, nelle sue svariate forme, si è fatto necessario innanzitutto per non recidere il contatto tra queste componenti e ha aperto infinite discussioni in tutto il paese, a proposito della forma ma anche della sostanza della situazione. La più rilevante è quella che riguarda le differenze tra gli ordini scolastici – come proseguire la didattica nella scuola primaria? Come reinventarla per la scuola secondaria, inferiore o superiore? – alla quale va immediatamente accostata la questione delle disparità sociali che la DAD (questo l’acronimo) evidenzia, e cioè il cosiddetto digital divide, ma non solo. Il governo ha prontamente cercato un rimedio finanziando le scuole per acquistare computer, tablet e connessioni stabili per permettere agli studenti di non essere penalizzati, ma è evidente che si è trattato di una risposta momentanea e comunque insufficiente in moltissimi contesti.

La scuola si è spostata su piattaforme appartenenti alle più svariate multinazionali private per creare classi virtuali, comprare licenze al fine di effettuare le videochiamate in luoghi protetti e autorizzati, ha potenziato enormemente l’utilizzo degli strumenti digitali e visto uno sforzo notevole da parte della classe docente per superare i propri limiti e immaginare soluzioni adeguate alle nuove circostanze. Pur nella difficoltà di sintetizzare in un discorso univoco realtà molto diverse – vista anche la diversa condizione (strutturale, sanitaria, emotiva) che ha caratterizzato le regioni italiane negli scorsi mesi –, come in una perfetta sineddoche della società, la scuola italiana pare aver mostrato scarsa preparazione, notevole dedizione, senso di responsabilità e grande cuore. Le regole del gioco (quelle scritte nel contratto di lavoro, ad esempio) sono state spesso cavallerescamente messe da parte in vista di un fine ritenuto superiore, l’illusione di una forma di ordinarietà in un contesto di grave crisi.

Didattica a distanza significa, almeno nell’esperienza di chi scrive, poco più di metà delle ore ordinarie in videochiamata, e un resto di continua invenzione di attività di vario tipo, nel tentativo di sganciarsi dalle consuetudini per provare a tradurre i contenuti in strumenti utili anche ad analizzare la straordinarietà del momento. Ma è senza dubbio la novità delle lezioni a distanza la tentazione più rischiosa e degna di nota. Al liceo, come probabilmente all’università, nei contesti più fortunati e per chi ha una connessione affidabile la cosa più o meno funziona – a condizione che non ci siano disabilità gravi tra gli studenti, casi di abbandono scolastico, che l’accesso ai dispositivi sia adeguato e molte altre precisazioni che sarebbe opportuno e lunghissimo fare (per le quali rimando ad alcuni studi più approfonditi citati in bibliografia). Alcuni, anche tra gli studenti, direbbero persino che funziona meglio. Il docente può fare la sua lezione, ridurre al silenzio gli alunni, se vuole può dar loro la parola. C’è più ordine e per certi versi persino più controllo.

L’attenzione coatta è il frutto però di una frammentazione che modifica radicalmente il senso stesso dell’esperienza educativa, trasformando l’attività di gruppo in un dialogo tendenzialmente monodirezionale che spezza lo spazio collettivo della classe con l’ottima scusa delle esigenze e delle ragioni tecniche. L’esito è l’interruzione di una delle più importanti esperienze di comunità eterogenee che si possa sperimentare, nonché l’ulteriore riduzione di quell’esercizio collettivo dell’intelligenza che rappresenta il nucleo fondante della scuola. Come se l’essenziale fossero i contenuti, come se bisognasse preservare il passaggio di saperi e non piuttosto tutto ciò che attorno ai contenuti e ai saperi è in gioco nell’esperienza educativa. Che cosa significa, allora, “funziona”, se pensiamo che funzioni?

La questione è estetica, verrebbe da dire, perché la scuola a distanza sottolinea le disparità che nella scuola fisica possono anche rimanere in secondo piano. Entrare nelle case degli studenti attraverso le videocamere dei computer, vederne gli spazi, sentire le voci dei familiari è un’intrusione che può essere insopportabile, esponendo in ogni momento gli studenti alla loro condizione e non provando dunque a lavorare su chi possono voler essere, su quel che possono voler diventare, anche attraverso gli studi. Quale che sia la condizione sociale ed economica da cui si proviene, la condizione di trasparenza che emerge dai margini della rappresentazione filtrata dagli schermi è violenta nella sua inessenzialità, e ha direttamente a che fare con la questione forse più cruciale, e cioè il ruolo dell’emancipazione all’interno della scuola.

Se la scuola vuole contribuire a promuovere lo sviluppo dei cittadini, rimuovendo secondo il dettato costituzionale gli ostacoli che ne limitano la libertà e l’eguaglianza, bisogna chiedersi anche se l’emancipazione che essa intende promuovere può prescindere dalla condivisione del tempo e dello spazio. Può esserci emancipazione a distanza, o la didattica a distanza rischia di trasformarsi in mera trasmissione e produzione o riproduzione di diseguaglianze? La domanda non è retorica se è vero che alle risposte date generosamente dal mondo della scuola in un periodo di emergenza dovrà pur seguire una programmazione che farà i conti con la situazione di incertezza che caratterizzerà stabilmente, nel migliore dei casi, i prossimi mesi.

Lo Stato potrà decidere di cambiare radicalmente rotta e sopperire almeno in parte ai tagli che hanno investito l’istruzione negli ultimi decenni, ad esempio assumendo personale per ridurre il numero di studenti nelle classi, riammodernando gli edifici, lavorando per costruirne di nuovi e nel frattempo per reperire locali adeguati o per abitarne e sperimentarne di nuovi, come propone il maestro Franco Lorenzoni, con l’obiettivo di «tornare a un’idea sociale e comunitaria dell’educare». Oppure, al contrario, potrà decidere di continuare a utilizzare questi strumenti emergenziali per tagliare ulteriormente le risorse a un sistema già prostrato. A dispetto della retorica pedagogica che innerva il didattichese contemporaneo – dall’insistenza sulle competenze all’acritica valorizzazione di un digitale considerato come fine e non come mezzo – il Ministero dell’Istruzione pare evitare accuratamente di porsi la domanda in tutta la sua radicalità, e il dibattito sulla scuola nel Paese è oggi per lo più assente o di rara povertà.

Dal momento che è una questione molto seria, forse allora bisogna farne un problema estetico. Una questione cioè che ha a che fare con la dimensione dell’aisthesis, con la percezione del sensibile e con le sue diverse partizioni. Alla fine degli anni ottanta il filosofo francese Jacques Rancière, che al rapporto tra estetica e politica ha consacrato i lavori più significativi della sua produzione, ha dedicato un libro importante a una figura inattuale come quella di Joseph Jacotot, pedagogo figlio della rivoluzione francese. Il maestro ignorante è la cronaca di una esperienza educativa che parte dall’ipotesi radicale dell’uguaglianza delle intelligenze – quell’ipotesi costantemente avversata dai fanatici della valutazione perenne. L’emancipazione, dice Jacotot, comincia a partire dal sovvertimento delle posizioni tradizionali che oppongono chi sa a chi non sa.

Il principio della filosofia panecastica di Jacotot afferma la costante traducibilità di tutto in tutto; alla prassi verticale della trasmissione del sapere sostituisce il principio orizzontale della possibilità di traduzione di ogni cosa sotto forma di un equivalente: nient’altro sono infatti la comprensione e la conoscenza se non la possibilità di fornire una traduzione in altri termini di ciò che si sta leggendo, guardando, studiando.

È quella stessa possibilità, contro ogni pedagogia dell’abbrutimento, che sarebbe possibile sperimentare in una scuola capace di pensarsi in modo diverso, e cioè non ossessionata, ad esempio, dalla questione del voto e dei programmi che tanto ha impegnato il pensiero di docenti e studenti da marzo ad oggi. Una scuola capace di rimettere in discussione i suoi stessi presupposti e di immaginare nuove forme di apprendimento cooperativo che verifichino costantemente la scommessa jacotista dell’uguaglianza delle intelligenze. Una scuola che può fare a meno di aule e sale professori, e al limite anche di professori e maestri, ma non di uomini e donne, ragazze e ragazzi che condividano tempi, e spazi, in vista della costruzione di nuove forme di vita comune. Questa è la sfida profonda che la scuola dell’emergenza pone alla società del futuro.

Riferimenti bibliografici
F. Bertoni, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus, Nottetempo, Milano 2020.
M. Di Gesù, L’università pubblica a distanza, “Doppiozero.com”, 21 aprile 2020.
F. Lorenzoni, Didattica dell’emergenza, in “Internazionale” n. 1356, 30 aprile/7 maggio 2020.
F. Lucchesini, La scuola è nuda. Appunti sulla Dad, in “Gli Asini” n. 75-76,
maggio-giugno 2020.
S. Onofri, Registro di classe, Minimum fax, Roma 2019.

J. Rancière, Il maestro ignorante, a cura di A. Cavazzini, Mimesis, Milano 2008.
P. Vereni, La scuola, lo spazio pubblico, la famiglia e il virus, 26 aprile 2020.

Share