Una donna si sveglia urlando, trasalendo da qualcosa che rimane (e rimarrà) inconosciuto. L’ultimo lavoro di Mike Leigh si apre con un incubo e, condensando il senso dell’intero film, il regista presenta la sua protagonista innanzitutto come un soggetto che non sogna, che ha rimosso il futuro anche dall’inconscio. Quando è vigile, Pansy è continuamente arrabbiata, inveisce contro il marito Curtley, idraulico laborioso, e il figlio Moses, ventiduenne disoccupato e obeso che si rimpinza tutto il giorno, ha la passione per gli aerei, si mette le cuffiette e va a camminare. Vittime privilegiate della donna, i due sono individui remissivi, mutacici, chiusi in un silenzio avvilente, fermi.

Al contrario, Pansy si agita di continuo, non riesce a stare sul divano, si reca dal medico che sfinisce o dal dentista che spazientisce per un cronico mal di testa che la attanaglia, si mette sotto le coperte bisognosa di trovare nel riposo una tregua dal mondo e da quella sé che scaglia parole violente contro la sorella Chantelle, le persone per strada, gli automobilisti, la cassiera al supermercato, la commessa di un negozio.

A caratterizzare la protagonista c’è un aspetto fondamentale: è una donna di mezza età. In un piccolo scritto del 1912, Modi tipici di ammalarsi nervosamente, Freud ha il genio di scorgere una radice ormonale negli individui di quella che per la sua epoca era la mezza età, per cui se la menopausa spesso provocava depressione nella donna, l’incipiente vecchiaia era causa di frequenti episodi maniacali nell’uomo. Da allora si è fatta strada l’idea che ci sia anche una radice biologica e non solo culturale nella sofferenza dell’età mediana, benché il tempo e la società contemporanea avallino tali meccanismi responsivi ipomaniacali. I rimaneggiamenti narcisistici di questa fase della vita sono importanti al pari di quelli dell’adolescenza, tanto da poter parlare di “maturescenza”. La differenza tra le due è però radicale e lascia sulla progettualità del futuro aloni di diverso spessore: laddove l’adolescente ha tutta la vita davanti per i propri investimenti (progetti amorosi, libidici o professionali), per il maturescente non è più così, trovandosi alle soglie della vecchiaia, cominciando a restringersi l’orizzonte dell’esistenza, riducendosi il numero degli anni da vivere. 

Pansy si trova in questo momento. La sorella lo condivide, come lei ha più di cinquant’anni, eppure la sua risposta è completamente diversa. Chantelle fa la parrucchiera, è una donna solare, sempre allegra ma non stupida, mai di un’ilarità sciocca. Le sue figlie, Aleisha e Kayla, sono come lei e così come lei le ha cresciute: giovani donne che prendono la vita con positività e ottimismo, resilienti, si direbbe oggi. Happy-go-lucky a tal punto da essere tra quelle persone che aggiustano ciò che capita loro, che sistemano la versione della realtà. In una sequenza vediamo una delle ragazze presentare una proposta alla direttrice dell’azienda in cui lavora, dato non casuale in un film di così poche, dense parole. La proposta viene bocciata, ma lei racconta alla sorella – e quindi anche a se stessa – che è andato tutto bene. Aleisha e Kayla sono derivanze entrambe sane di una stessa madre. Anche quella di Pansy e Chantelle è la medesima, ma i loro destini sono completamente opposti, percorsi diversi tracciati a partire dall’origine comune.

Zavattiniano per ammirazione, il cinema di Leigh non è fatto di gridate scene madri, piuttosto di momenti fitti di significato, spesso nascosti nei gesti sottolineati dalla macchina da presa o tra cenni di accadimenti fondamentali lasciati cadere nei dialoghi. Qui ce n’è uno importante, nucleo del film, quello in cui Chantelle invita con insistenza Pansy ad andare al cimitero in occasione della Festa della Mamma, per festeggiare la madre. Dopo molta resistenza la protagonista accetta e le due hanno un breve dialogo davanti alla tomba della donna. Esasperata dalle continue recriminazioni della sorella, dal suo dare la colpa a tutti per tutto  – compresa la madre, che Pansy accusa di averle preferito Chantelle o di essere morta in una maniera che è stata lei quella che l’ha dovuta rinvenire –, la sorella le chiede: “Ma perché non sai goderti la vita?”; e Pansy risponde: “Non lo so”.

La frase è il manifesto del film e di una condizione, dello stato inspiegabile di un personaggio senza insight. La sofferenza di Pansy è in-sensata, cieca e sorda, perché non sa leggere dentro di sé, non sa capire il proprio mondo interiore. La donna è infelice, lo è disperatamente e non conosce il perché. Pansy è malata nel corpo, il suo dolore mentale muta sottopelle e si scarica direttamente nelle ossa, la sua è sofferenza psicosomatica: rimanendo inspiegabili per la mente, le possibili cause psichiche del malessere si spostano direttamente nel fisico.

Dal breve dialogo di fronte alla lapide ma anche dalla logorrea collerica di Pansy emerge l’altro punto centrale del personaggio e del film: il rancore, il risentimento, il sentire encore, encore… La protagonista si lamenta di continuo e abita stabilmente una posizione vittimaria, ritenendosi portatrice di torti, vittima di traumi: si ritiene la non amata dalla madre rispetto alla sorella, si giudica malata più degli altri, si considera incompresa e odiata da tutti. Che abbia ragione o no, tale è la sua realtà. Diversamente dall’invidia che si aziona per distruggere l’oggetto – questo ha dei beni, delle ricchezze che il soggetto riconosce, ma sa che non le avrà mai e quindi vuole eliminarlo –, il risentimento non si movimenta per annientare l’oggetto, ma affinché viva: vuole che l’oggetto esista per continuare a odiarlo. Il mondo fantasmatico di Pansy si gioca nell’attacco a ciò che la delude e l’incapacità di liberarsene, tanto che la rabbia risultante diventa per lei condanna e salvezza. È questa ambivalenza a confluire nelle lacrime della protagonista, quando dinanzi al figlio che inaspettatamente le ha regalato dei fiori per la sua festa, la si vede affaticarsi solo per dirgli un grazie, mescolando sorrisi isterici a singhiozzi di rammarico. Con lo stile del realismo inglese, Leigh guarda tutti con pietas ed elimina ogni possibile spiegazione dalle labbra, proponendo allo spettatore di non catalogare, di non incasellare, nemmeno giudicare, ma di tentare una comprensione attraverso ciò che avviene.

L’incapacità di fronteggiare il proprio malessere è ciò che accomuna Pansy, il marito e il figlio. La donna è verbosa, sputa parole continuamente e proiettivamente trovando nemici; ma gli altri due, passivi e taciturni, hanno in fondo lo stesso male: l’incapacità di capirsi e quindi di delegare agli altri il lavoro della cura. L’altro che viene caricato di tale responsabilità è proprio Chantelle. La sorella riesce ad avvicinare il dolore di Pansy, telefonandole, sistemandole i capelli, proponendole di andare al cimitero e poi invitandola a pranzo. Stretta tra le mura di una stanza e a un tavolo troppo piccolo per i grandi non detti seduti intorno, in Leigh la scena del convivio è sempre il momento della catarsi, il punto dell’extremis in cui lasciar scorgere segreti e bugie, in cui avviene tutto e niente. Le figlie di Chantelle cercano in ogni modo di colloquiare, offrono da mangiare, versano da bere, propongono al cugino di incontrarsi per passeggiare insieme, chiedono a Curtley come sta sua madre, ma l’uomo non risponde.

A questo punto qualcosa in Pansy si rompe e, tornati a casa, comincia una ribellione: prende i vestiti del marito e li mette fuori dalla porta della stanza. Tutto avviene con i gesti, ma alla richiesta di una spiegazione da parte di Curtley, la donna torna a inquinare le parole, accusandolo di scortesia, di passivo-aggressività, di non aver risposto alla domanda. Incapace di reagire alla minaccia di essere lasciato, il marito va a lavorare. Qui – dove ha un collega che invece parla di continuo e praticamente da solo – si ferisce alla schiena. Anche nel suo caso la reazione al dolore (l’eventuale abbandono) è un dolore fisico: se non ho più te, io non mi muovo più, non sto più in piedi.

Il dramma di Pansy è di detestare tutti apparentemente, di proiettare la rabbia sugli altri ma di averne bisogno. La donna non sa essere autenticamente indipendente e quindi rimane imprigionata nella gabbia del rancore, fatta di odio doveroso e bisogno necessario. Il film si chiude come è cominciato, nella stanza dell’incubo, al bivio di un’impasse: respingere l’oggetto odiato (Curtley?) o continuare a detestarlo, riportandolo a sé per prendersene cura e quindi per curare se stessa?

Sebbene la certezza non appartenga al film, sperduti nell’epilogo si intravedono dei segnali, né buonismi né speranze ma soltanto delle simboliche aperture: fobica e compulsiva, Pansy prima sistema in un vaso i fiori regalati da Moses e poi, per la prima volta, apre la portafinestra sul loro giardino e allunga una mano fuori. Anche per il figlio un cambiamento, quando in una scena che brilla di sole, movimenti e umanità, lo si vede sulle scale di un angolo londinese e una ragazza allegra e sconosciuta si siede accanto, gli offre una merenda, gli parla.

Riferimenti bibliografici
S. Freud, Modi tipici di ammalarsi nervosamente, in Id., Casi clinici e altri scritti 1909-1912, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
L. Kancypier, Il risentimento e il rimorso. Uno studio psicoanalitico, FrancoAngeli, Milano 2003.
G. J. Montero, Psychoanalysis of Aging and Maturity: The Concept of Maturescence, Routledge, Milton Park-New York 2020.

Scomode verità. Regia: Mike Leigh; soggetto e sceneggiatura: Mike Leigh; montaggio: Tania Reddin; fotografia: Dick Pope; musiche: Gary Yershon; scenografia: Suzie Davies; costumi: Jacqueline Durran; interpreti: Marianne Jean-Baptiste, Michele Austin, David Webber, Tuwaine Barrett, Sophia Brown, Ani Nelson, Jonathan Livingstone; produzione: Film4, Thin Man Films, The Mediapro Studio, Creativity Media; distribuzione italiana: Lucky Red; origine: Regno Unito, Spagna; durata: 97’; anno: 2024.

Tags     Freud, Mike Leigh
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