Nel 1953, André Bazin dedica un saggio, intitolato Le cinéma est-il mortel? alla questione della morte del cinema nel periodo in cui le sale attraversano una crisi acuta a causa dell’avvento, quindi della concorrenza, della televisione. Bazin riflette intorno alla possibile vita postuma del cinema, «arte industriale» che non godrebbe dei «fenomeni di sopravvivenza» di cui beneficia il teatro (2018, p. 1236). Infatti, il teatro si rigenera continuamente: «nel gioco dei bambini», nelle feste di paese, nel «bisogno insopprimibile di certi giovani uomini e donne di “giocare” per i loro simili riuniti» (ibidem). Il teatro, allora, è dotato infinitamente di vita, a differenza del cinema, che «non è nato con l’uomo ma con la tecnologia» e quindi, secondo Bazin, la sua sopravvivenza è «totalmente dipendente da essa e dalla sua evoluzione» (ibidem).
Nel suo saggio, Bazin mette in luce un legame tra la sopravvivenza del cinema e quella del teatro. Infatti, le due forme d’arte condividono, in un certo senso, un destino comune nell’epoca massmediale che vede l’irruzione non solo del sonoro – c’era già da tempo la radio – ma, assieme a quello, con la televisione, anche dell’immagine: la forma audiovisiva che invade la quotidianità.
A partire dall’assunto che la proliferazione dell’audiovisivo, nella sua soluzione spettacolare, prima con la televisione e poi con internet, mette in questione la sopravvivenza di alcune forme d’arte – in questo caso il teatro e il cinema –, diventa assai chiaro il motivo per cui Maurizio Grande non smette di riflettere sulla sopravvivenza del teatro, che attraversa come un fil rouge i diversi saggi che compongono il volume Scena evento scrittura (2005). Infatti, benché nell’ultima fase della sua ricerca, Grande insegnasse cinema all’università, «non ha smesso di dedicare considerevole energia a riflessioni sul teatro» (Grande 2005, p. 10), «come testimoniano tra l’altro alcuni interessanti scritti databili agli anni 1995 e 1996» (ibidem), pubblicati per la prima volta in questo volume. Perché è nel teatro che sembra giocarsi una posta in gioco fondamentale della contemporaneità: nella società mass-mediologica il teatro perde la sua centralità – come emerge già negli anni Cinquanta, dalle parole di Bazin – in quanto «istituto dedicato allo scambio simbolico e alla costruzione di socialità» (ivi, p. 13).
L’era mass-mediologica è inscindibile dall’avvento di una più spietata era della «spettacolarità integrale e dell’esteticità diffusa», che ha «distrutto i linguaggi come forme simboliche della cultura e della società» (ivi, p. 261). In effetti, nell’ultima delle sezioni, che compongono il volume, dedicata al Destino del teatro, Grande si concentra proprio sullo statuto del teatro nell’era della sua sparizione, in un presente «refrattario a qualsiasi possibilità di esperienza, sia pure nelle forme caotiche della degradazione e della impurità dei codici, degli stili, dei comportamenti che hanno alimentato la ventata del post-moderno e del “pensiero debole”» (pp. 263-264). Il teatro è la forma dell’esperienza impossibile per eccellenza, che sopravvive solo «come memoria e come archivio, come residualità di un immaginario esausto e doppiato dalla sensibilità spettacolare del cinema e del video» (ivi, p. 265). Da questo punto di vista, allora, l’unica possibilità affinché la sopravvivenza del teatro possa intendersi in quanto “vita postuma”, e non come cimelio della nostalgia di tempi andati, è cogliere
La differenza dalla simulacralità dello spettacolo come duplicato del Museo e dell’Archivio. Qui si gioca la partita non solo dell’artisticità del teatro ma della politicità dell’arte in grado di sottrarsi alla documentazione della nostalgia, al palcoscenico del rimpianto e alla archeologia del domani. Infatti, ogni domani non è che matrice di nostalgia e forma inconfessata di rimpianto, e non già annuncio di futuro reale o scavalcamento del presente. Si dovrà ripartire dalla differenza radicale del teatro […] Bisognerà rischiare tutto sulle proprie differenze viste come patrimonio inalterabile e come individualità non riassorbibile nelle estetiche encratiche dello spettacolo politico nazionale (ivi, pp. 265-268).
L’ultima sezione di Scena evento scrittura potrebbe dunque posizionarsi come punto di partenza per leggere i saggi contenuti nelle precedenti sezioni del volume, in quanto presenta la necessità – come indica il titolo di uno dei saggi, La necessità del teatro – di una «riflessione originale del teatro come forma d’arte, ma anche sul destino del teatro nella generale trasformazione della società in universo informatico» (ivi, p. 251). Un fare teoria, dunque, che dovrebbe permettere al teatro di rivivere «al di là della sua “liquidazione” nel documento informatico», compito che spetta anche o soprattutto all’università (ivi, p. 109). Infatti, secondo Grande una vita postuma del teatro è possibile solo se si riflette sulla differenza fenomenologica e ontologica di questa forma d’arte, nella sua «residualità di “autenticità” e “autonomia” estetica» (ivi, p. 252). Solo se si elabora concettualmente la forma teatrale, nell’epoca della spettacolarità, proprio nella differenza con quest’ultima, ponendola come spazio politico che resiste all’universo della riproducibilità spettacolare.
L’elaborazione concettuale del teatro, nell’epoca in cui è messa in dubbio la sua sopravvivenza, da parte di Grande richiede innanzitutto un corpo a corpo con alcune questioni fondamentali, come emerge nei saggi di Scena evento scrittura: la rappresentazione, la scrittura, lo spettacolo, la ripetizione e l’attore. Occorre innanzitutto specificare che, nei saggi in questione, Grande prende le distanze dalle riflessioni raccolte nel precedente La riscossa di Lucifero (Grande 1985), dove pare che sia ancora legato tanto all’indirizzo semiotico, quanto all’idea del teatro in quanto rappresentazione (Grande 2005, p. 15). Per ristabilire gli statuti della scena e della scrittura al di là della rappresentazione, che si pone come una sorta di fondamentalo dello spettacolare, Grande fa apparire tra di essi – così come indica il titolo di Scena evento scrittura, privo di virgole – la nozione di “evento”. Quello di evento si potrebbe considerare in quanto concetto che dà conto della lotta contro una metafisica del teatro – lotta che Grande sostiene innanzitutto tentando di smascherare i pericoli della rappresentazione. Prima, però, di comprendere la rilevanza di questo concetto, occorre seguire il percorso di destituzione delle nozioni di un pensiero del teatro – o forse, ancora di più, di una filosofia del teatro – legato alla metafisica, che Grande traccia nei saggi di Scena evento scrittura.
La prima sezione del volume, dedicata a La parola, la soggettività, è dedicata alla voce, quindi al soggetto che appare in scena. Emerge qui primariamente che lottare contro la metafisica del teatro significa scardinare, forse per ricodificare, la struttura rappresentazionale del teatro stesso, che trova fondamento in una precisa concezione linguistica. Infatti, è primariamente nella presenza dell’attore, attraverso una voce che si fa corpo, che si pone la questione di una presenza che fa a meno della rappresentazione, laddove
se la scena della presenza (scena della presenza vocale non subordinata al senso linguistico) non è più la scena in cui la realtà viene raffigurata e chiamata in causa: è la scena interiore di una voce sottratta al principio di identità (la voce come manifestazione dell’Io) e svincolata dal principio di prestazione (la voce come strumento del senso) (ivi, p. 38).
Il rapporto tra la voce e la presenza del soggetto sulla scena richiama un problema che sta alla base della tradizione culturale, e in particolare filosofica, «che culmina nella decostruzione della metafisica occidentale, e che si è pronunciata sui rapporti fra la voce e la soggettività, fra la voce e la coscienza» (ivi, p. 39). In proposito, Grande esplicita la sua continuità rispetto alla filosofia di Jacques Derrida (ivi, p. 23), laddove Derrida dimostra che la voce è immediatamente coscienza, e non, come si ritiene di consueto, uno strumento del comunicare; un punto di vista «che rinviene nella voce non già la protesi della significazione, ma la presenza espressa della soggettività» (ibidem): «I suoni non dileguano nel significato, non “cadono” al di fuori del soggetto, non si disperdono nel mondo, nelle cose “rappresentate” linguisticamente» (ivi, p. 40). Come se la voce diventasse quasi pura immagine, nella presenza dell’attore sulla scena. Che ci sia una necessità in Grande di arrivare alla materia immaginale del teatro è forse ravvisabile, in particolare, nei saggi dedicati alla “scrittura di scena”, raccolti in Scena evento scrittura – come se la lotta contro la metafisica del teatro, dunque contro la rappresentazione e la spettacolarità diffuse, si dovesse porre innanzitutto sul piano del corpo dell’immagine.
La possibile apparizione di un corpo dell’immagine a teatro è inseparabile, infatti, nel problema del carattere concettuale della voce, dalla questione linguistica, in quanto è innanzitutto la lingua che appare come un affetto – mantenendo quel lessico, quella tassonomia della filosofia deleuziana con cui Grande, in un certo senso, si pone in continuità (De Gaetano 1998). In più, sostrato della lingua a teatro è la scrittura: «La scrittura è il tessuto espressivo dell’opera, che si presenta a trama grossa o fine, con tratti fisiognomici che “rappresentano” il senso e ne orientano l’interpretazione» (ivi, p. 68). Nella scrittura, infatti, l’autore, «lo scrittore, si fa scrivente: qualcuno che negli affetti trova la scrittura per parlare all’“altro”, e non solo per far parlare i personaggi» (ibidem). La scrittura, infatti, si riferisce all’altro: perché è il problema dell’alterità o, meglio, dell’esteriorità che il teatro deve indagare per ripensare una sua sopravvivenza, nella misura in cui «tra i problemi inquietanti della nostra epoca» quello decisivo concerne la «natura dell’identità», ossia la maniera in cui un individuo si posiziona simbolicamente nella società (ivi, p. 47).
La riflessione sulla scrittura è un’altra fase della lotta contro la spettacolarizzazione, dunque contro quella metafisica del teatro che, forse, ne sta a fondamento. Più in generale, si potrebbe anche pensare che, per Grande, la scrittura si ponga come gesto in grado di donare una certa autonomia al teatro in quanto forma d’arte dotata di un proprio statuto linguistico – cosa che si evince anche nel prezioso saggio, intitolato Il tempo-spazio della scena, in cui Grande riflette intorno allo spazio teatrale, che confronta con il cinema. Grande adotta la dicitura “scrittura di scena” (Deriu 1998), per evidenziare che è possibile un altro modo di intendere lo «spettacolo teatrale»: non più come mera «“messinscena” di un testo», bensì come «processo artistico nel quale, al tempo stesso, il teatro si enuncia come sistema di segni (e non come sistema di trasposizione di segni) e come autonomia interpretativa da parte dell’autore (sia esso il regista o sia esso l’attore-regista)» (Grande 2005, p. 83).
Un momento emblematico tanto per il definitivo abbandono della nozione di rappresentazione teatrale, quanto per la riflessione sulla scrittura, è la partecipazione di Grande al «Laboratorio “La ricerca impossibile”, guidato da Carmelo Bene durante la sua direzione della Biennale Teatro, e svoltosi a Venezia nel settembre 1989» (ivi, p. 16; Grande 1990a). Oltre a Bene, nel pensiero del teatro di Grande, è fondamentale anche la figura di Antonin Artaud, in particolare per l’elaborazione della “scrittura di scena”. Di una paradossale scrittura che va al di là dello scritto: è Artaud, infatti, che decostruisce il teatro togliendo il primato alla parola letteraria che occlude la possibilità di un gesto prima e oltre la lingua (Zanardi 2014).
Bene e Artaud, infatti, rinunciando entrambi a una lingua codificata (Grande 2005, p. 192), complicano il rapporto con l’alterità, mettendo in crisi la condizione pubblica del teatro, pensando altrimenti la sua esteriorità ( Zanardi 2014). Con le dovute differenze, tanto Bene quanto Artaud scelgono un modo di fare teatro a cui «è riservato questo destino di asociale asocialità, di singolare presenza “politica” nel suo paradossale resistere alla industria culturale» (Grande 2005, p. 259). Dopo La riscossa di Lucifero, entrambi rappresentano per Grande dei segnavia di un tentativo di pensare la sopravvivenza del teatro al di là dello spettacolo e, al limite, anche al di là del teatro stesso – come si evince, in particolare, nella parte degli scritti dedicati ad Artaud intitolata proprio Artaud, oltre il teatro. Benché in Scena evento scrittura, ci sia solo qualche riferimento a Carmelo Bene, in quanto, negli scritti presentati, Grande si concentra principalmente sulla figura di Artaud, è cruciale il saggio L’evento della scrittura, in cui appare come, per comprendere la rilevanza che, nel volume, assume il concetto di evento, sembrerebbe necessario iniziare a riflettere proprio sul rapporto tra Artaud e Bene.
La crucialità dell’evento, che nella vita postuma del teatro è inseparabile tanto dal tentativo di fuoriuscire dalla nozione di rappresentazione, quanto di andare al di là di un certo modo di intendere la scrittura, è da rintracciare innanzitutto nella pratica teatrale artaudiana. Dopo che il teatro «di ricerca del secondo dopoguerra ha attuato il programma di Artaud o, per essere più precisi, ha sperimentato la parte emersa delle sue concezioni» (ivi, p. 209), liberandosi così «dalla sudditanza al testo drammatico, elaborando l’idea e la prassi di una scena “anti-rappresentativa”» (ibidem), rimane una
Parte sommersa del programma di Artaud, la sua concezione di una scena “inteatrabile” come luogo della folgorazione magica di forze primordiali, come dissoluzione del soggetto (l’attore) in un rito crudele, fisico e mentale al tempo stesso, che purifica lo spettatore sradicandolo da una “umanità” pervertita e prostituta nei traffici di una cultura della ripetizione e della sopravvivenza. È questa parte sommersa del pensiero di Artaud a sopravvivere in una sorta di corrente sotterranea, clandestina, che solo a tratti si manifesta nella decisa opposizione allo spettacolo – sia pure il più eversivo e “impraticabile” – visto come negazione del teatro e come “tradimento” dell’evento (ibidem).
Secondo Grande, è Carmelo Bene che accoglie la parte sommersa del programma di Artaud nella sua teorizzazione del “teatro senza spettacolo”, in cui supera l’idea «di evento che nessuna scena può mettere al mondo se non in termini simbolici e metafisici» (ibidem), che rappresenterebbe l’impasse di Artaud. In questo modo, Bene «si pronuncia di conseguenza contro qualsiasi conciliazione fra teatro e metafisica, fra teatro e rito, e, infine, fra teatro e scrittura di scena intesa come sublimazione della regìa» (ibidem). Prima di procedere, occorre dire chiaramente cosa è l’evento in Artaud e in che senso la sua pratica teatrale è ancora legata alla metafisica: «Il teatro, secondo Artaud, ha il compito di risalire alla condizione metafisica della creazione attraverso una crudeltà che trascenda la finitezza individuale, che ponga in un contatto alchemico l’appetito vitale e il vortice cosmico che divora vita dopo vita» (ivi, p. 224). Se il teatro di Artaud continua a essere metafisico, lo è non perché abbia a che fare con «la metafisica occidentale, cioè la fondazione della realtà in relazione al principio primo, l’Essere, che trascende e totalizza gli enti» (ivi, p. 225), ma perché dissolve la realtà fisica affermando una vita che, alla fine, si autodistrugge. L’evento, allora, sarà proprio questo bruciare dell’attore, che, annullando la scena, mostrerà «la dissipazione fisica e psichica […], la trasfigurazione del turbine gnostico della crudeltà in quanto creazione insensata della vita, gesto inutile, metafisica del nulla» (ivi, p. 216).
Bene, allora, liquida «l’equivoco dell’evento – che si compirebbe in un rito sacro che sublima l’estetica della “scrittura di scena”»; in questo modo, pone il «“teatro senza spettacolo” come conseguenza di una teatralità che può incarnarsi solo nell’attore-autore, perché è l’attore che realizza l’evento della erosione del linguaggio e del soggetto in un teatro liberato dallo spettacolo» (ivi, p. 210). La “macchina-attoriale” attuata da Bene pone dichiaratamente fine a ogni metafisica del teatro, in quanto celebra la fine della metafisica del soggetto, laddove la scrittura, nella destituzione di «ogni forma e di ogni senso» (ibidem), espone l’impossibilità di un teatro che realizza «un evento scenico inconciliabile con la ripetizione, con l’arte di replicare la vita del soggetto» (ibidem). Perché l’idea di scrittura di scena a cui ancora resta legato Artaud non liberandosi, dal punto di vista di Bene, dalla metafisica della crudeltà, «riduce l’attore e la scena a segni inerti di una scrittura replicabile all’infinito come documento depositato della soluzione registica» (ivi, p. 213).
In questi saggi, sembrano permanere delle contraddizioni, però, tanto nell’interpretazione beniana della metafisica di Artaud, quanto nella posizione presa in merito da Grande, perché, in realtà, Artaud stesso reclama «un linguaggio senza scrittura […] cancellazione della scena in quanto scrittura di segni teatrali, in quanto inscrizione della regìa […] In Artaud lo spettacolo non è altro se non l’epifania dell’impossibilità del teatro: il teatro che, in quanto scrittura, sia superato al di là di ogni pretesa rivendicazione di autonomia della scena dal testo, dal dialogo, dalla rappresentazione» (ivi, p. 223; Zanardi 2017, pp. 115-116).
Al di là di queste contraddizioni (sul rapporto tra Artaud e Bene si veda soprattutto Grande 1990b), la sezione dedicata più in generale all’attore, assieme a quella specifica su Artaud, attestano la necessità di Grande di arrivare alla materialità del corpo dell’attore – che in questo volume avviene in particolare attraverso la figura di Artaud. In effetti, è alla fine del testo Per un teatro senza teoria, proprio riflettendo intorno alla “metafisica della crudeltà” di Artaud, che Grande sembra esplicitare la posta in gioco del corpo attoriale: niente di meno che il superamento della scrittura per mostrare come quel linguaggio senza scrittura, a cui Artaud aspira con la sua metafisica della crudeltà, sia in realtà, probabilmente, paradossalmente, la destituzione dell’ordine metafisico (classico): «L’idea del linguaggio di scena – al di là di ogni ipostasi di progetto registico e di scrittura – è colata nel corpo dell’attore che si consuma, […] nell’impulso a bruciare la vita in una fiamma che alimenta la necessità cosmica della creazione» (Grande 2005, p. 229).
Un teatro che voglia sopravvivere, facendola finita con lo spettacolo, deve innanzitutto intendere la sua “vita postuma” in un legame inscindibile con la morte: è una vita che si afferma, ma che non si conserva. Ciò che conserva la vita, e, così facendo, la controlla, è innanzitutto l’Altro. L’Altro, «i cui nomi per Artaud sono “Essere”, “Dio”, ma anche “società”, “governo”» (Zanardi 2017, p. 124), che non è separabile da tutto ciò che è spettacolo, «dalla scuola alla politica, da Internet al telefono portatile: istituzioni di controllo peggiori dello spettacolo che offrono. Istituzioni totali che solo il teatro può schivare, perché solo il teatro si sottrae per sua natura alle istituzioni totali, ed è per questo che oggi è stato scaraventato ai bordi della vita sociale» (Grande 2005, p. 177). L’evento artaudiano, allora, rivela che solo nel linguaggio (del corpo) dell’attore, oltre la scrittura, il teatro può sopra-vivere, mettendo in atto una «passione metafisica»: «La vita che si consuma al di là di ogni linguaggio […] lo spasimo della vita che continua a divorare se stessa anche nella morte» (ivi, p. 237).
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Le cinéma est-il mortel?, in “France Observateur”, n. 70, 13 agosto 1953. Ora in Id., Écrits complets, vol. I, Éditions Macula, Paris 2018, pp. 1236-1237.
R. De Gaetano, La teoria o dell’invenzione concettuale, in R. De Gaetano (a cura di), La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998, pp. 119-131.
F. Deriu, Sulla “scrittura di scena, in R. De Gaetano (a cura di), La visione e il concetto, cit., pp. 87-102.
M. Grande, La riscossa di Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Italia (1976-1984), Bulzoni, Roma 1985.
Id., La macchina antilinguaggio, in C. Bene (a cura di), La ricerca impossibile: Biennale Teatro ’89, Marsilio, Venezia 1990, pp. 88-106.
Id., L’attore senza teatro, in P. Klossowski et al., Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia 1990b, pp. 109-121.
Id., Scena evento scrittura, a cura di F. Deriu, Bulzoni, Roma 2005.
M. Zanardi, Pensare con il teatro, 2014. Quattro trasmissioni, ispirate dagli incontri all’ex Asilo Filangieri di Napoli, tra dicembre 2013 e febbraio 2014, su Radio 3 dedicate ad Artaud, Bene e Beckett.
Id., Dal regno dei morti, in Id. (a cura di), Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017.
Maurizio Grande, Scena evento scrittura, a cura di Fabrizio Deriu, Bulzoni, Roma 2005.