Secondo le parole di Walter Benjamin, creature anfibie e incompiute abitano le opere di Franz Kafka. Esseri palustri che, da ere geologiche inappellabili, appaiono sulla soglia dell’oblio, che confonde pre-storia e redenzione, apparentemente inconciliabili.

Membri di questa razza mediana, di questa genia senza genia, potrebbero essere anche le figure che dai margini degli appunti, dei diari, dei manoscritti di Kafka, si piegano, si curvano, si allungano, poggiano stanchi la testa sulle mani, assestano a vuoto colpi di fioretto.

Fino ad oggi balzate nel nostro immaginario da copertine di testi o da tavole in conclusione di ampi volumi, queste creature insieme già-finite e irrisolte – da sempre destinate al cestino della carta straccia – rivivono nel libro Scarabocchi (curato da Ginevra Quadrio Curzio e edito da La Vita Felice) grazie ad un’interessante operazione di montaggio, che sembra rispondere al celebre adagio benjaminiano: leggere Kafka a partire dal suo mondo di immagini.

Scarabocchi distrattamente tracciati durante il lavoro o le lezioni di diritto, minuziosamente descritti in cartoline e lettere o abbandonati come impressioni di idee e sogni, si accompagnano alle immagini della scrittura, in una relazione che spezza ogni rapporto denotativo o illustrativo tra parola e immagine. Il montaggio lascia emergere uno spazio intensivo tra le immagini (letterarie e figurative), uno spazio quasi inabitabile in grado però di ri-attivare le potenze che attraversano impercettibili il bianco del foglio, che costituisce insieme il respiro e il resto della scrittura (Didi-Huberman 2006).

Non è un caso che ad affiancare nel volume gli scarabocchi – il dimenticato dell’opera kafkiana – siano testi apparentemente marginali: appunti, stralci di lettere e diari, abbozzi di racconti mai scritti in cui il sogno e i fantasmi dell’immaginazione prendono corpo. L’incompiutezza, caratteristica di tutto il lavoro di Kafka, è qui palesemente esibita: essa alimenta una macchina d’espressione tesa a destituire l’orizzonte dell’esito formale compiuto (del romanzo come del disegno) per “rendere visibile l’invisibile”, ossia mostrare le forze plasmatrici che configurano gli spazi e agiscono sui corpi. Negli esperimenti grafici e nella scrittura, queste divengono esperibili come visioni e visioni di visioni che sorgono là dove il mondo – nella sua totalità come nell’“assolutamente concreto” – appare come ciò che è radicalmente impraticabile (Benjamin, Scholem 2019, p. 51).

La scrittura mostra, infatti, forze costrittive e costipative che operano sullo spazio deformandolo («Il lungo pudibondo stava rintanato in un vecchio paesello, tra casette basse e vicoletti angusti»; Kafka 2021a, p. 47), fino a piegare i corpi che lo attraversano sotto un peso ineliminabile («La testa ciondolava tanto pesante che la sera notai con stupore che il mento mi si era saldato al petto»; p. 37); che ostacolano il movimento («Era un porticina bassissima […] Non potevamo perciò andare in giardino tutti insieme, ma dovevamo strisciare uno dietro l’altro»; Kafka 2021b, p. 854), disperdendolo in un moto senza fine (“Era una gigantesca infilata di stanze…”; Kafka 2021a, p. 86). Queste stesse forze di compressione gravano sui corpi dei disegni kafkiani, che nei sei scarabocchi denominati da Max Brod “marionette” sono alle prese con limiti spaziali, con barriere dinnanzi alle quali non possono che arrestarsi o sdraiarsi.

Se, dunque, questa impraticabilità del mondo è innanzitutto un’impraticabilità dello spazio – di cui la strettezza è l’emblema – le strategie che Kafka mette in campo di fronte ad essa si iscrivono nell’orizzonte di un’altra politica dello spazio e, con essa, dell’immagine: nella scrittura come nella figurazione, Kafka dà vita ad un’intensificazione dello spazio chiuso (De Conciliis 2018) che interrompe ogni referenzialità ed ogni movimento imperfetto, asfissiante nel suo essere indefinitamente prolungabile. Ciò, tuttavia, non produce alcuno psicologismo né alcuna stasi, ma un movimento puro che coincide con l’abbandono del carattere comparativo del linguaggio il quale, scrive Kafka, «non tratta che del possesso e dei suoi rapporti» (Kafka 2021b, p. 788).

È proprio nelle prove grafiche dello scrittore che è possibile cogliere la potenza dialettica di tale strategia. Georges Didi-Huberman, in occasione della Lectio Magistralis tenuta nel 2020 per la casa editrice Mimesis, ha analizzato alcuni scarabocchi kafkiani, mettendo in luce le tensioni che li attraversano. Alcuni corpi sono stretti nella cornice del disegno che vince la spinta al movimento dei protagonisti, come appare in maniera particolarmente lampante in quegli schizzi che mostrano la vita dello scrittore.

Come fa notare il filosofo francese, nel primo – che Kafka allega in una cartolina alla sorella Ottla (1918) per descriverle le “scene della sua vita” – tutti i mobili della casa diventano dispositivi di costrizione nella semplice visione dei loro volumi e inquadramenti. Il corpo dello scrittore è crocifisso al piano del tavolo, del letto, della sedia, fino quasi a dissolversi al centro dell’immagine. Nel secondo, che accompagna una lettera a Milena del 1920, Kafka mostra alla donna le sue «occupazioni» disegnando un corpo fissato ad una cornice complessa, quella di una macchina di tortura di cui descrive il funzionamento: «Sono quattro pali, attraverso i due in mezzo si fanno passare pertiche per i piedi. Una volta che l’uomo è immobilizzato a questo modo, le pertiche vengono lentamente spinte fuori, finché l’uomo non si strappa a metà», esattamente come «il maiale sventrato davanti alla bottega» (Kafka 2021a, p. 118).

Accanto a questi disegni ne figurano, però, altri, in cui i limiti spaziali imposti dalla cornice – che, come abbiamo visto, ingabbia i corpi – sono trasgrediti: è il caso della “marionetta” che tende il braccio in un colpo di spada; di quella che, poggiata al bastone (anch’esso parte di questo corpo inumano), resta in bilico, quasi in assenza di gravità, sul poco terreno di cui dispone; o di tutti quegli scarabocchi in cui linee fugaci e confuse non producono una forma ma la traiettoria di una linea di fuga: uno slancio improvviso, un’immobile velocità inaspettata.

Se la realtà configura il movimento come un necessario esser sospinti attraverso l’interminabile riproducibilità delle sue ostruzioni, Kafka ne mette in scena una forclusione esasperata (vediamo, in uno scarabocchio, la moltiplicazione delle cornici: quella del foglio, quella di una superficie quadrata – forse uno specchio – e quella del suo basamento). Giunta alla soglia della sua massima amplificazione, essa potrà rovesciarsi, forse per un istante, nel suo opposto. Nel perno dialettico tra «la felicità del moto» e la «disperazione della strettura» (Kafka 2021b, p. 801), tra un dinamismo desiderante e la cornice istituita in cui esso si inscrive, il gesto può sorgere, talvolta, come singolarità in formazione, a partire dall’intensificazione della forma-limite della linea sull’immagine-respiro del foglio bianco.

Il gesto non sarebbe infatti iscritto nell’orizzonte di una processuale liberazione dei corpi. Nessuna speranza di riuscita attraversa il lavoro di Kafka. Il gesto scritto sarebbe piuttosto l’impressione di una traccia cinetica che, producendosi come in sogno solo a partire dall’assoluta certezza del fallimento, non de-signa nulla fuori di sé e, proprio per questo, diventa operatore di una radicale destituzione dell’esistente.

In questo senso si può forse intendere l’affermazione kafkiana secondo cui gli scarabocchi sarebbero «tentativi di magia primitiva» (Janouch 1991, p. 43). Il tratto non trasforma la realtà in immagine né l’immagine in realtà (è per questo che Kafka definisce, ancora una volta, fallito tale esperimento), ma rivela e interrompe l’intima congiunzione tra la concatenazione infinita del movimento e quella del significato, trasformando la vita stessa in geroglifico.

Kafka aveva infatti ben compreso come la lotta nella modernità non potesse essere che una lotta contro la spettralità degli apparati di mediazione – messaggeri, funzionari, lettere, deviazioni, porte, sbarramenti – che rendono lo spazio inattraversabile e il senso incomunicabile (pensiamo solo a racconti come Il messaggio imperiale). La trasmutazione della vita in geroglifico è, allora, il gesto di una totale sottrazione a tali apparati: la vita, non più soggettivamente agita, è riassorbita in una scrittura ideografica impersonale. Esclusa ogni operatività orientata al mondo, i corpi sono rimpiccioliti fino ad assumere la stessa astrazione di una lettera dell’alfabeto (Quadrio Curzio 2021a, p. 26), al di là e al di qua di ogni iscrizione simbolica.

Nello spazio della grafia, di una scrittura senza interpretazione che tuttavia non può che sollecitarne una forma mostruosa, letteratura e scarabocchio diventano, al limite, indistinguibili. La medesima strategia che impone di definire e intensificare le frontiere del movimento e del senso per inventare le figure della loro inesausta diserzione, è in gioco tanto negli scarabocchi che – in maniera ancor più radicale – nell’ultima fase della produzione letteraria di Kafka, in particolare nel romanzo Il Castello. Un complesso sistema di metafore risponde qui alla «questione dei limiti» e «del designare» (Miglino 2018, p. 35) che, come abbiamo visto, costituisce il punto cardine dell’operazione kafkiana. Il protagonista del romanzo, K., è infatti un agrimensore: la sua opera riguarda sempre lo stabilimento e la trasgressione di confini, la sua lotta implica sempre una dis-posizione dello spazio.

Se il sogno – che alimenta le visioni dello scrittore – invalida il carattere metaforico del linguaggio abolendo il “come se” della referenza, la metafora assoluta prende la similitudine alla lettera, comprimendo la realtà al punto da istituire tra le due un rapporto di divergenza che, nello spazio del testo, riattiva le potenze del sogno con «tutte le forze del raziocinio» (Kafka 2021a, p. 124). La similitudine, ormai fine a se stessa, ingloba interamente l’esistente, palesando una forza trasformativa ancora solo in nuce nei “disegni”.

Le immagini letterarie perdono, infatti, ogni appiglio al mondo esterno e ogni referente allegorico per formare un sistema intransitivo e perfetto (da qui l’austerità della scrittura kafkiana) che, soppressa ogni consolatoria via di fuga tra la metafora e la realtà, concede un unico, paradossale movimento: quel “salto nella metafora” cui sembrano tendere, ancora fallendo, gli scarabocchiPrima e dopo la letteratura, prima e dopo il disegno, il salto che trasforma noi stessi in metafora è la via im-possibile che ci permette di abbandonare il «mondo della menzogna» e giungere, con un balzo, in quello della verità.

Immagine e parola, divenute pura materia metaforica, rivelano il mandato e il compito che l’impotenza che alberga nell’opera incompiuta di Kafka ci consegna: aprire nella storia lo spazio inabitabile di questa trasfigurazione. «Ciò che in questa vita si chiama dolore, in un’altra vita, pur restando immutato e liberato soltanto del suo contrario, diventa beatitudine» (Kafka 2021b, p. 792).

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, G. Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, Adelphi, Milano 2019.
W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.
E. De Conciliis, Metamorfosi dello spazio e riduzione dell’umano: Kafka e l’animale, in K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp. 64-77.
G. Didi-Huberman, Gesti d’aria e di pietra. Corpo, parola, soffio, immagine, Diabasis, Reggio Emilia 2006.
G. Janouch, Conversazioni con Kafka, Guanda, Parma 1991.
F. Kafka, Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, Newton Compton, Roma 2021b.
P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1984.
G. Miglino, Nella tana della metafora assoluta. Poetologia e storia nell’ultimo Kafka, in K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp. 25-37.

F. Kafka, Scarabocchi. I disegni di Franz Kafka, a cura di Ginevra Quadrio Curzio, Edizioni La Vita Felice, Milano 2021a.

 

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