Il palcoscenico è affondato in un buio denso, il suono di un violoncello esegue il quarto tempo della 5° Suite per violoncello di Bach. In quel buio si apre un ritaglio di luce, come una inquadratura in primo piano: ci mostra una donna che si rivolge a noi, ci parla del suo ex marito, Johan, ormai vecchio e diventato milionario, ha lasciato l’università dove era docente emerito e vive in una vecchia casa in mezzo ai boschi, ritirato dal mondo: “Molto spesso penso che dovrei fare visita a Johan”, dice la donna. Il ritaglio si chiude e poi si riapre allargandosi e scorrendo come in un piano sequenza, fino a scoprire addormentato sulla sua poltrona l’anziano Johan. È l’avvio dell’adattamento teatrale di Roberto Andò (andato in scena al teatro Mercadante per il Teatro di Napoli-Teatro Nazionale e ora in tournée) dell’ultimo film bergmaniano (quasi un suo testamento filmico), Sarabanda, che riprendeva trent’anni dopo gli ex coniugi, Marianne e Johan, di Scene da un matrimonio, la miniserie tv del 1973, innescandoli in una dinamica familiare che diventava metafora della condizione umana come cognizione del dolore, presentimento di morte, meditazione sul disamore, sul possesso morboso, sull’angoscia del vivere, riflessione sul passato e insieme sull’ inquietudine del futuro, sul trascorrere implacabile del tempo.
La struttura del film era composta da un prologo, dieci sequenze e un epilogo e in trasparenza scandiva, appunto trasponendo visivamente una forma musicale, i movimenti interiori e laceranti, i rimpianti, i sensi di colpa, le reciproche accuse, le incomprensioni, gli odi, gli attaccamenti morbosi in un groviglio familiare di esseri umani la cui disperante solitudine procedeva lungo una danza tragica sull’orlo di un abisso infernale, ogni volta cadenzato in una sorta di passo a due dei dialoghi, in duetti taglienti e crudeli come lame, ma anche carichi di una disperata richiesta d’amore. Ciò che è proprio del teatro e cioè la parola e il corpo così come ciò che è proprio del cinema e cioè l’immagine e l’ombra, nello spettacolo si intersecano richiamando quello che in Bergman (indissolubilmente uomo di cinema e di teatro) veniva esaltato nell’affidarsi a quella “forma di verità” che è il silenzio. La musica diventa l’indicibile, vive nella sua paradossale eco di silenzio, così come il continuo “trafiggersi” con le parole dei personaggi di Sarabanda deposita in un residuo di silenzio entro cui essi “si rivelano più in quello che non dicono che in quello che dicono” (come scrive nelle sue note di regia lo stesso Andò).
Uno degli ultimi scritti di un grande filosofo ed estetologo come Emilio Garroni (Sarabanda o dell’indicibile pubblicato su “Filmcritica” un anno prima della sua scomparsa) è dedicato proprio al film “terminale” di Bergman, che viene assunto come il compendio di quella misteriosa indicibilità, di quel sotteso e ineffabile “suono” che i film bergmaniani racchiudono. Nello scritto garroniano si legge in apertura:
L’ultimo film di Ingmar Bergman, Sarabanda, ha un titolo che suona, letteralmente, come indice della sua intera poetica. Vale a dire: indica […] che tutti i suoi film non sono mai chiaribili fino in fondo dal punto di vista delle motivazioni narrative e psicologiche, ma mantengono sempre, intenzionalmente, un alone di indeterminatezza e di indicibilità che fa parte integrante del loro significato complessivo. Appunto: come indicibile è la musica stessa, che tuttavia allude al dire, specialmente nel caso in cui sia composta nella forma di un "recitativo" in senso largo, quale sembra essere la Sarabanda bachiana usata in Sarabanda. Il titolo si riferisce al quarto tempo della 5a Suite per violoncello di Bach, già in Sussurri e grida, e ripreso, nell'ultimo film, e nel titolo e musicalmente, con la medesima funzione, a mio parere, che aveva nel precedente (2004, p. 259).
Così lo spettacolo procede trafitto dai momenti di buio intermittenti e gli squarci, i lacerti entro cui i personaggi si dilaniano e si rinserrano nelle rispettive recriminazioni, negli sfoghi acidi o isterici, nelle sgomente confessioni reciproche. Johan, padre-padrone manipolatore di sentimenti (un Renato Carpentieri che modula magistralmente acrimonia e fragilità, sarcasmo e imperiosità, impietosa durezza e una sorta di brutale candore), suo figlio Henrik, vittima di una insoddisfazione perenne e roso dall’odio per il padre, così come prigioniero di una possessività morbosa e malsana su cui aleggia l’ombra dell’incesto (un Elia Shilton che alterna accenti di disarmanti sconforti, accensioni di veemenza recriminatoria, abbandoni di passione divorante) e Karin, la figlia diciannovenne che si dibatte tra l’inadeguatezza e l’insicurezza della sua età acerba e la dedizione che sente di dover tributare alla sua vocazione di violoncellista (una Caterina Tieghi febbrile, inquieta, tenera ma insieme tenacemente fedele ai propri accenti di sincerità). E poi Marianne che diventa il personaggio catalizzatore. testimone e arbitro dei duelli a colpi di accuse reciproche e ricatti morali che scandiscono crudelmente i match verbali, le sarabande attanaglianti, colei cui è conferita la capacità di ascoltare, di lenire le ferite, e il coraggio di vedere nelle piaghe sanguinanti di quelle anime (Alvia Reale le conferisce una serena pacatezza e una sofferta empatia).
Ma c’è un quinto personaggio invisibile, forse alla radice di quei dolori, colei che rappresenta la “mancanza”, il soggetto perduto, e insieme una fonte d’amore diventata inattingibile: Anne, la moglie morta di Henrik, la madre di Karin (cui lei si scopre assomigliare come il riverbero di una immagine), la nuora di Johan, che dall’aldilà aleggia come uno spettro, che però è anche un fantasma protettore, come una luce che irradia una possibilità di salvezza (e Henrik la sogna davanti a un cancello a piedi nudi e con una treccia sul petto che gli viene incontro, e si domanda se non sia già morto, considerando assorto come sia, in fondo, “così facile: tutta la vita ad interrogarci sulla morte… su quel che c’è o che non c’è, quando è così semplice!”). Nel film di Bergman la foto di Anne è posta a chiusura, il volto sereno, il sorriso enigmatico.
Gli stessi nomi dei personaggi compongono una segreta genealogia bergmaniana: Anne e Johan erano i nomi dei nonni materni del regista, Karin si chiamava la madre (cui il cineasta nel 1984 dedicò un vibrante omaggio basato proprio sulla sua foto, Il volto di Karin), e Erik era il nome del padre, il severo pastore luterano che lo educò secondo i concetti ferrei del peccato, della confessione, del perdono e della grazia, motivi che segneranno il cinema bergmaniano. In Sarabanda si intrecciano come in una estrema partitura emotiva tutti questi temi che lo spettacolo di Andò di volta in volta mette a fuoco, ricavandone come un distillato insieme struggente e crudele che incastona in una drammaturgia rigorosa e asciutta, di precisione millimetrica, le temperature emozionali della sceneggiatura così come i rimandi sottili al film, lavorando su pochi, essenziali elementi che ne costituiscono le intercapedini: l’attore, la luce, lo spazio e naturalmente la sonorità e gli affondi musicali. Il lavoro con gli attori restituisce il cesellare, lo scavare, l’orchestrare le vibrazioni di stati emotivi che di volta in volta irrompono oppure implodono, si scarnificano oppure si intensificano.
Il lavoro delle luci e la segmentazione dello spazio (straordinariamente progettati da Gianni Carluccio) entrano continuamente in sintonia con una regia pensata per strutturazione di campi e piani che intersecano la cifra filmica nell’area scenica andando a comporre e scomporre dei veri e propri “punti macchina” teatrali, facendo scorrere nel buio le “inquadrature” come altrettante “scale” dei piani e ricavandone perfino un gioco sul “fuori campo”, oltre che un “movimento di macchina” teatralizzato. Altrettanto le luci si rifrangono in ombre allungate, in squarci che lacerano il buio, in fughe luminose che disegnano e modellano quell’oscurità come fossero la metafora di un bisturi che estrae del fondo delle anime le viscere emotive. In tal modo lo spazio è pensato da Andò come una sorta di “punto cieco”, di vuoto abissale immerso nella notte impenetrabile di quelle anime.
Ancora in tal senso gli accenti meditativi, la concentrazione espressiva, l’intenso e solenne richiamo tra la preghiera e il lamento della Sarabanda bachiana non solo si insinua nel buio come un ammonitorio interludio ma diventa anche una eco, trasponendosi in una sorta di responsorio nelle musiche originali di Pasquale Scialò, che traducono la tensione dei timbri recitativi in sequenze ritmiche e in punteggiature e percussioni lontane che scandiscono la suggestione e l’ossessione dello scorrere del tempo interiore. Tutto ciò diventa coacervo emozionale con lo spazio e la luce, con i corpi degli attori, con la loro voce e i loro volti, con la sonorità sottesa alle “corde” della loro angoscia, e converge allora come un precipitare nel punto psichico e fisico dell’urlo che chiude lo spettacolo, urlo corale di membra messe a nudo che si offrono alla nostra vista, al nostro scrutare nel buio delle anime.
Riferimenti bibliografici
I. Bergman, Sarabanda, Iperborea, Milano 2005.
E. Garroni, Sarabanda o dell’indicibile in “Filmcritica”, 550, Editori Del Grifo-Le Balze, Montepulciano 2004.
Sarabanda. Testo: Ingmar Bergman; regia: Roberto Andò; scene e luci: Gianni Carluccio; costumi: Daniela Cernigliaro; musiche: Pasquale Scialò; suono: Hubert Westkemper; interpreti: Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo; durata: 160′; anno: 2025.
* foto di scena di Lia Pasqualino.