Un giovane sceneggiatore, fresco laureato alla USC School of Cinema, si immerge in una impresa complessa: quella di compiere una ricerca attenta e minuziosa sui production files e su tutti i documenti su cui riesce a mettere le mani riguardanti uno dei suoi miti cinematografici, Sam Peckinpah. È il 1984, il regista americano, uno dei più grandi innovatori del cinema statunitense della seconda parte del Novecento, è appena deceduto; David Weddle (questo il nome del giovane sceneggiatore) inizia a lavorare sui materiali che si è faticosamente procurato; comincia a spulciare dati, documenti, interviste, lettere. Lentamente, molto lentamente, un libro inizia a prendere forma. Dopo dieci anni dall’inizio dell’avventura, nel 1994 esce in libreria Se si muovono… falli secchi! (uscito ora anche in Italia per le edizioni Minimum Fax): l’impresa è diventata realtà.
Ma la ponderosa biografia di Peckinpah (che ben presto si rivela al lettore come qualcosa di ben più complesso del racconto di una vita), sarà per Weddle il punto di partenza per un percorso nuovo. Ira Steven Behr, showrunner di Star Trek: Deep Space Nine (Berman, Piller, 1993-1999) legge il libro e ne rimane entusiasta. Immediatamente chiama Weddle (e il suo partner, Bradley Thompson) a far parte del team di scrittori delle ultime stagioni di Deep Space Nine, che diventeranno infatti uno dei momenti più alti della saga pluridecennale di Gene Roddenberry. Lo stile asciutto e moderno di Weddle lo fa diventare uno degli scrittori e produttori più in vista della nuova serialità televisiva. Innamorato della fantascienza, Weddle ripensa i grandi canoni del genere: da Star Trek a Battlestar Galactica (Moore, 2004-2009), passando attraverso le forme più autoriali del The Strain (2014-2017) di Guillermo del Toro e Falling Skies (2011-2015) di Steven Spielberg. I suoi script colpiscono per l’ambiguità dei personaggi, il cinismo e il disincanto della narrazione, la messa in questione di ogni manicheismo narrativo.
Ma cosa aveva colpito così tanto Behr nel libro di Weddle per chiamarlo a rinnovare la serie più discussa dell’intero franchise di Star Trek? Basta scorrere le prime pagine di Se si muovono… falli secchi! per rendersene conto. Il libro si apre con il racconto della prima a Kansas City de Il mucchio selvaggio, nel maggio del 1969. Il racconto è secco e coinvolgente: quasi ipotizzando una sceneggiatura, la narrazione alterna le descrizioni delle reazioni del pubblico – «Trenta persone si precipitarono in corridoio e fuggirono dal teatro, alcune per andare a vomitare nel vicolo adiacente. Ma la maggior parte rimase ben salda alle proprie poltrone, inorridita eppure paralizzata» (Weddle 2018) –, all’immagine della figura silenziosa di Peckinpah, che assiste in disparte e apparentemente tranquillo alla scena. Fin dalle prime pagine chi legge si trova dunque proiettato in una narrazione romanzesca, dallo stile secco e senza fronzoli, in cui situazioni e personaggi vengono delineati con pochi aggettivi e immagini rapide. Una scrittura direttamente legata ad una forte tradizione del romanzo statunitense a cui Weddle è molto legato.
Ecco dunque il primo elemento: Weddle racconta la vita di Peckinpah adottando le tecniche della scrittura romanzesca. I dati e i documenti reali diventano la base per la trasformazione del regista e del suo mondo in una creazione letteraria, in parte simile alla forma della non-fiction novel americana. Ma scorrendo le pagine del “romanzo” di Weddle, altri elementi iniziano ad emergere con forza. Nel proseguo del testo, infatti, prende corpo lentamente un processo di analisi delle forme cinematografiche di Peckinpah, attraverso un percorso genealogico che mostra come una teoria e una pratica del cinema siano nate nel regista californiano attraverso stimoli ed esperienze diverse. Una certa idea del montaggio che nasce dalle prime esperienze di rielaborazione di testi teatrali («prendere del materiale già esistente e riscriverlo sarebbe diventato il suo più grande talento di scrittore»); oppure che prende forma dalla visione dei film di Kurosawa – il montaggio non cronologico, la diversa velocità della ripresa che al montaggio sarebbe diventato un racconto composto di diverse temporalità.
Nel testo di Weddle, Peckinpah rappresenta l’idea di un cinema che di fatto crea per assorbimento e rielaborazione. La creazione – come ripeteva tra l’altro spesso Ejzenštejn citando Goethe – non è che una questione di furto e ricomposizione di elementi preesistenti. Ed ecco allora avvicendarsi nel testo la lettura del primo piano in Chaplin come forma aperta, la messa in gioco della mitologia americana in Ford e Hawks, la capacità del Neorealismo di concentrarsi sui dettagli minimi di un’esistenza. Tutti elementi che confluiranno come forme del cinema nei film di Peckinpah, che costituiranno le basi di una costante riflessione sul cinema stesso.
Dagli esordi teatrali al passaggio al cinema, a partire dall’esperienza come assistente alla regia di Don Siegel (da cui apprende la capacità di lavorare velocemente, sfruttando al massimo ogni risorsa), attraverso il lavoro in televisione come scrittore e sceneggiatore di serie western di successo come Gunsmoke e Broken Arrow (serie in cui Peckinpah esordisce come regista), il percorso dell’autore di Sierra Charriba (1965), L’ultimo buscadero (1972), Pat Garrett & Billy the Kid (1973), Voglio la testa di Garcia (1974) diventa nel libro un saggio sulla pratica filmica, sul lavoro del film come elaborazione concreta di una teoria del cinema. È soprattutto il montaggio, che Peckinpah considera in ogni fase del lavoro del film, dalla scrittura del soggetto alla post produzione, a diventare il principale e più potente strumento del cinema, strumento che disaggrega e fa confliggere corpi e spazi, che li fa deflagare in un mondo che non è più organico o unitario. Quello che emerge con forza è infatti un’idea amplia e multiforme del montaggio, che inizia dal lavoro sulla scrittura, un lavoro di taglio e ricomposizione di un materiale preesistente, e prosegue nella fase delle riprese, in cui molteplici macchine da presa sono già posizionate per moltiplicare i punti di vista, per lavorare sul cambiamento dei piani e dei tempi di ripresa, presupposto necessario per la distruzione della narrazione unica e monocorde.
Ma ciò che attraversa potentemente tutto il libro è qualcosa di ancora più caratterizzante per una riflessione sul cinema americano. La dimensione romanzesca e la riflessione sul cinema aprono di fatto al racconto di uno sguardo, di una forma più che di un genere. Le quasi seicento pagine del libro sono infatti uno straordinario viaggio lungo le trasformazioni del western nel cinema americano. Dalle prime fascinazioni per il western manicheo alla Tom Mix, al grande racconto mitologico del cinema di Ford e Hawks appunto; fino alla televisione come laboratorio ibrido, in cui l’evoluzione del western (il padre di tutti i generi cinematografici, come affermava Bazin) diventa la cartina di tornasole mediante la quale mostrare la trasformazione del cinema americano dalla prima alla seconda metà del secolo. Peckinpah diventa allora l’autore che ha vissuto sulla sua pelle questa trasformazione, dall’infanzia innocente del mito al suo rovesciamento cinico e romantico insieme. Tutto è western nel cinema del regista californiano, perché il western è il fondamento di ogni mitologia statunitense e al tempo stesso ne costituisce la critica, il rovesciamento radicale.
Proseguendo la lettura del libro allora, l’incrocio delle scritture – dal romanzo tragico della vita del regista alle riflessioni sulla forma e sul cinema come racconto del mito – continua ad intersecarsi fino alla fine, in una forma fluida e che già si pensa come racconto, narrazione. Weddle costruisce allora a sua volta una narrazione del mito, dell’ascesa e della caduta. Una caduta non solo umana – il racconto della solitudine, delle relazioni naufragate, dei problemi con l’alcool di Peckinpah – ma anche di un’epoca del cinema e della televisione, in cui il piccolo schermo costituisce un trampolino di lancio e una palestra efficace per una nuova generazione di registi e attori che saranno poi la linfa vitale della nuova Hollywood. Se si muovono… falli secchi! è dunque qualcosa di più di una biografia, o è forse ciò che ogni impossibile racconto di una esistenza si rivela essere al suo fondo, vale a dire l’invenzione di una vita, che in questo caso diventa la lente per una riflessione ulteriore: quella sul cinema, sul lavoro del film e sulla sua storia.
Riferimenti bibliografici
D. Weddle, Se si muovono… falli secchi!, Minimum Fax, Roma 2018.