Saldamente sulle nuvole, come spiegato nella prefazione dalla curatrice del testo Isabella Pedicini, riprende un’espressione di Ennio Flaiano nel libro dedicato a Paolo Uccello. Un ossimoro che racchiude le difficoltà e la salda ostinazione che hanno deviato la vita del maestro Jodice verso le luci e le ombre della fotografia. Una narrazione intima, dettagliata, di avvenimenti, scelte e incontri che hanno nel tempo ridisegnato il destino di un ragazzo prestato al lavoro prima del tempo, senza avere la possibilità di progettare autonomamente il proprio futuro.

La lettura scorre veloce tra i ventuno brevi capitoli che costituiscono Un’autobiografia – intrecciata a eventi della storia politica e sociale –, i due capitoli dedicati ai ringraziamenti e, in appendice, la Cronologia. Curiosità e passione sono le parole chiave per delineare i momenti cruciali della vita di Mimmo Jodice. L’incontro con la fotografia è come un’epifania che fa intravedere, seppur in modo ancora velato e oscuro, una nuova possibile strada da seguire. Strada che dovrà essere però tracciata a partire dalla costruzione della conoscenza dello strumento macchina fotografica e della camera oscura. I racconti più tecnici, dedicati alle sperimentazioni e alla progressiva definizione del linguaggio artistico, costituiscono le incursioni più interessanti nel testo. In qualche caso troppo brevi, lasciano spazio frequentemente ai racconti biografici. Costituiscono però una traccia presente quasi in ogni capitolo che consente la ricostruzione del percorso artistico del fotografo.

Le prime sperimentazioni ospitano nei ritagli di vita la fotografia e invadono la casa con la camera oscura – definita dalla famiglia “il pollaio”. Almeno inizialmente, si inseriscono timidamente per poi prendere il sopravvento. Jodice inizia a creare immagini fotografiche prima ancora di fotografare, inserendo pezzetti di plastica nella fessura del negativo o usando foglie, grani di sale, fili di lana, con un richiamo – inconsapevole? – alle rayografie di Man Ray. E l’immagine assume subito la forza degli oggetti da cui trae origine grazie a «esplorazioni […] sia di tipo tecnico che linguistico […] concentrate sia sui materiali che sulle possibilità espressive del mezzo fotografico» (Jodice 2023, p. 30). Possibilità che continuano a essere esplorate anche quando finalmente riuscirà ad acquistare una Canon e alcuni obiettivi. I soggetti delle prime foto sono ancora oggetti, «basoli in attesa di essere utilizzati per la pavimentazione di una strada o una sfilza di bottiglie di vetro riprese a distanza ravvicinata» (ivi, p. 40) con inquadrature che ne esaltano le geometrie. Si apre immediatamente una frattura con le fotografie della tradizione, quelle che Barthes nella sua classificazione definisce «retoriche (Paesaggi/Oggetti/Ritratti/Nudi), oppure estetiche (Realismo/Pitturalismo)» (Barthes 2003, p. 6) e si delinea, invece, il progetto, l’attesa, l’alterazione della realtà.

Astrazione, dunque, e rifiuto della tradizione. Richiami, piuttosto, a sperimentazioni pittoriche come il dripping di Pollock che hanno portato alla creazione dei “chimigrammi” ottenuti gocciolando gli acidi sulla carta fotografica. Un percorso da artigiano della fotografia, così si definisce Jodice, che continua in camera oscura con alterazioni del contrasto, frantumazioni, esplosioni della grana, strappi, lacerazioni. La rielaborazione in camera oscura diviene fondamentale, stabilisce un legame indissolubile con il bianco e nero che favorisce l’immaginazione ed esclude, almeno nelle intenzioni, la documentazione. «Il colore non mi avrebbe aiutato perché descrive, mentre il bianco e nero spinge a supporre le cose, a immaginarle» (Jodice 2023, p. 44). Un’ispirazione/aspirazione iniziale continuamente messa alla prova dalla realtà degli incontri e delle occasioni.

La documentazione, infatti, non sarà estranea al lavoro di Jodice, ma si farà valere per lo più nel progetto che precede ogni scatto. Ne sono testimonianza le fotografie realizzate per le inchieste negli ospedali psichiatrici – Il Cuore batte a Sinistra – o quelle dedicate al lavoro nelle industrie, alla condizione operaia, al lavoro minorile, all’epidemia di colera… Ma lo sono anche quelle eseguite per il progetto sulle cerimonie religiose condotto con Roberto De Simone e confluite nel libro Chi è devoto pubblicato nel 1974. E ancora quelle realizzate per le riviste di architettura o per il progetto Viaggio in Italia promosso da Luigi Ghirri, che ha portato alla definizione di un nuovo modo di vedere il paesaggio.

Napoli è stata un’altra costante, sia perché saldamente scelta come luogo di vita, sia perché spesso al centro di progetti artistici come Vedute di Napoli (1980), La città invisibile (1990) e Mediterraneo (1995) e altri lavori più recenti in cui il mare diviene un nuovo luogo da esplorare, «luogo privilegiato dove si incontrano realtà e sogno», dove «il tempo si arresta definitivamente» (ivi, p. 163). Di qui, l’attesa, parola chiave della pratica artistica di Mimmo Jodice, «contemplazione pacifica e serena degli oggetti» di morandiana memoria che, con uno sguardo rivolto alle guide spirituali De Chirico, Magritte, Carrà, ha «alimentato il nucleo della mia poetica: l’atemporalità, ovvero la ricerca nella fotografia di una dimensione in cui il tempo sfugge a qualsiasi determinazione. Le mie immagini sono, infatti, frammenti di un viaggio nel tempo» (Jodice 2023, p. 148). La fotografia per Jodice può essere intesa come il passaggio della realtà nel sogno, del tempo nell’atemporalità, nella sospensione.

Ne costituisce un esempio il progetto realizzato per il Louvre nel 2011 – Les Yeux du Louvre – dove gli occhi dei vivi (le persone che lavoravano nel museo) e dei morti (i dipinti) – posti l’uno a fianco all’altro – rivelano la sospensione e l’atemporalità, il viaggio «tra passato e presente, tra i vivi e i morti, tra l’animato e l’inanimato […]. Ogni coppia di occhi perde la propria individualità di sguardo, cedendo il passo a una semplice linea retta di orifizi singoli e indipendenti, disposti a intervalli regolari: gli occhi, per l’appunto» (ivi, p. 194). In una fotografia nel testo (ivi, p. 196) appare Jodice mentre assiste al montaggio della mostra: i suoi occhi sono perfettamente in linea con quelli delle immagini esposte; le immagini hanno tutte dimensioni diverse, ma gli occhi dei personaggi sono allineati in una linea d’orizzonte virtuale che unisce questi volti-senza-sguardo con lo sguardo di chi osserva, espediente spesso usato in pittura. L’occhio dell’Operator (Barthes) diviene l’organo che patisce l’immagine, «la veduta in cui si fa vedere il volto senza sguardo di colui che non vede più» (Nancy 2018, p. 24). L’occhio dell’Operator, al pari di quello dello Spectator, partecipa della visione di un’immagine esemplare.

Visione, questa, già proposta negli pseudo-sguardi che celano occhi spalancati in Anamnesi, opera realizzata per la stazione della metro Museo di Napoli, ed esposta prima a Capodimonte e poi anche alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2000, dove la «sequenza di volti tratti dalla statuaria e dai mosaici antichi» è allineata «lungo la comune linea-orizzonte dello sguardo» (Jodice 2023, p. 182). Di nuovo volti-senza-sguardo, questa volta tutti ripresi da opere classiche che rafforzano l’atemporalità e la sospensione in un luogo – il camminamento verso i binari o verso la città della metro – dove la velocità e distrazione potrebbero distoglierci dal rifletterci negli occhi-orifizi.

Il percorso artistico di Jodice è stato caparbiamente teso a «elevare la fotografia a linguaggio artistico» (ivi, p. 30), provando a liberarla dalla sua tautologia e allontanarla dal suo referente al quale è indissolubilmente legata: «Nella foto la pipa è sempre la pipa, inesorabilmente» (Barthes 2003, p. 7), e questa distanza comincia subito a manifestarsi in Fotografie come la Carta di identità, Taglio o Bruciatura del 1978. Ne sono ancora testimonianza le relazioni con i musei del mondo e con i galleristi, le lauree honoris causa che gli sono state conferite, e l’essere riuscito a far entrare l’insegnamento della Fotografia nelle Accademie di Belle Arti a partire dal 1970.

Nel giugno del 1967 la prima esposizione – 48 fotografie di Mimmo Jodice – (da questo refuso la conversione del cognome da Iodice a Jodice, quasi a rimarcare che un nuovo percorso di vita stava per cominciare) presso la libreria La Mandragola di Napoli. Nel testo di accompagnamento scritto dal critico cinematografico Antonio Napolitano si decreta l’entrata nel mondo dell’arte della Fotografia, un’uscita da uno stato di minorità ma, soprattutto, si parla «di lunga attesa, quella bruciante e travagliata attesa che solo concede di catturare la luce giusta» (Jodice 2023, p. 33), che spesso necessita di solitudine e silenzi. E se l’immagine riuscirà a essere silenziosa, forse, si potrà mettere a tacere il rumore della documentazione, della tecnica, della realtà, della stessa arte. «La fotografia dev’essere silenziosa (vi sono foto reboanti, che io non amo): non è una questione di “discrezione”, ma di musica. La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi, è far parlare l’immagine nel silenzio). La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito bla-bla: “Tecnica”, “Realtà”, “Reportage”, “Arte”, ecc.: non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva» (Barthes 2003, p. 56).

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Camera chiara. Note sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
J.-L., Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2018.

Mimmo Jodice, Saldamente sulle nuvole, a cura di I. Pedicini, Contrasto, Roma 2023.

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