Attualità di Rosa Luxemburg è il sottotitolo de La primavera che viene, importante volume uscito lo scorso anno che Giovanni Di Benedetto ha dedicato ad una rilettura sistematica del pensiero politico-economico e della vicenda storica di quel “condensato di differenze” incarnato dalla socialista eretica e agitatrice rivoluzionaria ebrea polacca assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dalle forze reazionarie della nascente Repubblica di Weimar nel gennaio 1919. Dalle aporie dell’attivismo rivoluzionario alla crisi sistemica del capitalismo, dalla catastrofe ambientale alla colonizzazione illimitata del pianeta, dalla mercificazione dei beni materiali e immateriali allo sfruttamento degli ultimi della Terra, dalla denuncia della carica distruttiva dell’incantamento militaristico alla critica della violenza come necessità storica: per Rosa Luxemburg il capitalismo non conduce semplicemente alla catastrofe, ma è esso stesso una catastrofe, un’ininterrotta sequela di stermini e devastazioni, un’espropriazione continua di risorse umane e naturali. Declinato appunto nel senso di un pensiero della catastrofe, questo importante contributo rappresenta uno dei tentativi più organici di una riconsiderazione complessiva della figura e dell’opera di Rosa Luxemburg a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e in occasione dei due anniversari del 2019 e 2021 (cento anni dalla morte e centocinquanta dalla nascita). Non è forse un caso che Mimesis pubblichi ora, con ricchissima e densa postfazione della curatrice Rosalia Peluso, il breve saggio di Hannah Arendt su Rosa Luxemburg, che può essere considerato come il precedente genetico di questa riattivazione della sua eredità storica e teorica, ma che solleva anche alcune questioni concettuali di non facile soluzione.

Pubblicato col titolo A Heroine of Revolution in “The New York Review of Books” dell’ottobre 1966, questo testo seminale di Hannah Arendt era già apparso due volte in traduzione italiana (in “Tempo presente” del 1968, e, col titolo Elogio di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria senza partito, a cura di Alessandro Dal Lago, su “MicroMega” nel 1989). Se l’occasione per confrontarsi direttamente con la figura di Rosa Luxemburg è rappresentata per la Arendt dalla pubblicazione dell’imponente biografia di Peter J. Nettl, i nodi teorici che emergono in questo breve saggio riguardano aspetti assolutamente cruciali della sua riflessione politico-filosofica di quegli anni.

L’approccio di Arendt alla figura di Rosa Luxemburg muove da una critica alle leggende cristallizzatesi intorno alla sua figura, di cui, già da giovanissima, aveva potuto fare personalmente esperienza nella Germania dei primi anni venti. Da un lato la leggenda dell’eroina che usciva di prigione tra le lacrime dei suoi carcerieri, dall’altro quella di “Rosa la Rossa”, della donna non tedesca, ebrea e comunista, “assetata di sangue”, romantica e poco scientifica, rivoluzionaria troppo amante della natura per poter fare a meno di travisare la dottrina marxista del Capitale. In tal senso, come rileva in importanti pagine della postfazione Rosalia Peluso, non è forse un caso che l’attenzione di Arendt si concentri su questa figura proprio negli anni in cui subiva una sorte analoga nella controversia seguita alla pubblicazione de La banalità del male (1963), in una sofisticata strategia di rispecchiamento che investe diversi aspetti della propria identità di donna, intellettuale ed ebrea.

Per questo, facendo leva sulla prima biografia né agiografica né denigratoria dedicata a Rosa, come era quella di Nettl, Arendt punta prima di tutto a demitizzare Rosa, per poi concentrarsi sul potenziale critico dei suoi scritti e della sua pratica rivoluzionaria. Può così sottrarre l’eredità della Luxemburg a quella propaganda alimentata da una certa tradizione marxista ortodossa che aveva schematizzato il suo pensiero al fine di enucleare dalle sue opere quegli “errori teorici” da cui invece la persona poteva essere dichiarata immune, per poter essere quindi assunta, in virtù del suo sacrificio ma anche a prezzo della neutralizzazione della sua carica teorica, nel pantheon dei martiri del socialismo. D’altro canto, denuncia sempre Arendt, era sulla base di questa stessa riduzione ideologica che quelli che, da Lenin a Lukács, erano stati definiti gli “errori di Rosa Luxemburg” potevano poi diventare in positivo patrimonio di una nuova sinistra democratica e non totalitaria, finendo per fare del “luxemburghismo” una sempre più scontata risorsa antidogmatica di cui infatti hanno fatto ampio uso i vari movimenti di rigenerazione della sinistra di quegli anni.

Il ritratto ideale che scaturisce da questa rilettura allora innovativa è quello di una outsider, diffidente, come la stessa Arendt, nei confronti dei movimenti di emancipazione femminile, studiosa convinta della necessità di un confronto serrato ma non dogmatico con Marx, un’inattuale e inclassificabile donna di pensiero e d’azione che poteva offrire spunti teorici più attuali e produttivi di certo marxismo, come ad esempio la sua interpretazione dell’imperialismo come esito intimamente connaturato al modo di produzione capitalistico, che, per la propria tendenza all’accumulazione, ha sempre bisogno di un “fuori” da colonizzare, di risorse sociali, naturali ed esistenziali da invadere e sfruttare, di lavoratori e popoli da assoggettare ed espropriare, di soldati da mandare al macello. Un pensiero della catastrofe, appunto, che Arendt prefigura forse per prima nella tessitura concettuale delle opere di Rosa Luxemburg.

Ma, nonostante l’importanza di questi e altri nodi storici e teorici, per la Arendt la posta in gioco implicita nel suo confronto con l’eredità di Rosa è in realtà ancora più alta. Esso è infatti diretta irradiazione della riflessione sviluppata in Sulla rivoluzione, controversa opera uscita nel 1963 e, in seconda edizione, nello stesso 1966, che ruota intorno al problema del tradimento, del fallimento o dell’oblio dello “spirito rivoluzionario” moderno nella storia del Novecento. Come è noto, secondo Arendt fine della rivoluzione non è solo la radicale trasformazione della società, ma anche la contemporanea creazione di un nuovo ordine politico, che si esprime nelle istituzioni che la rivoluzione è capace di produrre. Se solo le nuove forme di governo che una rivoluzione esprime possono costituire l’autentica rottura con il potere precedente, secondo Arendt Luxemburg ha intuìto precocemente il dissidio che esiste tra democrazia “consiliare” e sistema dei partiti, mostrando come le forme fedeli allo “spirito rivoluzionario” siano sempre le esperienze politiche legate a organi come le comuni o i soviet, organi non soltanto d’azione, ma anche “d’ordine”, sorti con l’obiettivo di conferire un’organizzazione alla situazione rivoluzionaria prodottasi spontaneamente (la rivoluzione non “si fa”, alla rivoluzione si partecipa, sottolinea più volte la Arendt).

La posta in gioco nell’attualizzazione dell’eredità di Rosa Luxemburg riguarda cioè per Arendt il nesso cruciale tra potere destituente e potere costituente, tra rivoluzione come liberazione e rivoluzione come violenza che riproduce o intensifica la logica totalizzante e totalitaria del capitalismo imperialista. Come però di recente ha ricordato Enzo Traverso nel suo fondamentale libro sulla rivoluzione, Hannah Arendt ha tracciato una netta separazione tra liberazione e libertà. La liberazione è un atto di volontà, per definizione transitorio ed effimero, che può generare libertà ma anche dispotismo, mentre la libertà dovrebbe essere per Arendt uno status duraturo che richiede un sistema politico repubblicano. Arendt è cioè interessata alla rivoluzione solo in quanto momento originario della libertà repubblicana, e per questo fa delle rivoluzioni americana e francese due idealtipi, concludendo che, mentre la Rivoluzione americana è riuscita a istituire la libertà repubblicana, la Rivoluzione francese ha fallito a causa della sua pretesa di eliminare lo sfruttamento materiale, aprendo così ad incursioni autoritarie nel corpo sociale che, rompendo l’autonomia del politico, hanno originato un nuovo dispotismo, forma embrionale dei futuri totalitarismi.

Separando radicalmente politica e società come due ambiti autonomi e in realtà inconciliabili, Arendt finisce così per considerare controproducente e distorto il tentativo di liberare l’umanità dalla povertà con mezzi politici. Per questo, sottolinea sempre Traverso, Sulla rivoluzione è un testo intimamente contraddittorio, in cui Arendt difende un concetto di libertà oscillante tra Rosa Luxemburg e Tocqueville, tra un’idea di libertà prossima all’anarchismo, i cui archetipi sono la Comune di Parigi o i soviet del 1917, e una forma politica che non ha alcun contenuto sociale, perché libertà è solo condizione di un insieme di cittadini liberi, fluttuanti in una sorta di “vuoto sociale”. Se è vero, come ricorda sempre Traverso, che per Arendt la responsabilità del tragico fraintendimento tra libertà (politica) e necessità (materiale) appartiene in ultima istanza a Marx, allora il passaggio compiuto da Arendt attraverso l’eredità di Rosa Luxemburg rivela quella che forse è la sua reale funzione: si tratta cioè di trovare, nella tradizione marxista, un punto di appoggio per sviluppare un’idea di rivoluzione sulla cui base svolgere una critica e un superamento delle aporie storiche del comunismo.

Per queste ragioni, qui delineate in modo assai sintetico, il breve saggio di Hannah Arendt su Rosa Luxemburg del 1966 è ancora oggi centrale anche per le aporie che ne costituiscono alcuni presupposti. Esso ha il merito di riattualizzare l’eredità della Luxemburg come campo di tensioni storiche e concettuali da cui possono scaturire sia una concezione problematica della rivoluzione e della libertà politica come quella delineata dalla stessa Arendt in Sulla rivoluzione, sia la presa di coscienza del fatto che anche una politica comunista corre sempre il rischio, soprattutto in “tempi bui”, di assorbire ed introiettare azioni e forme di pensiero proprie delle pratiche di potere del nemico (guerra come levatrice della rivoluzione, totalitarismo del partito unico, etc.), nemico di cui allora non vanno combattute solo le forze, ma anche i gesti, le ragioni, gli schemi “mitizzati” (Jesi) di cui si sostanzia la sua politica.

E questo perché, anche se viene uccisa agli albori della storia del comunismo, Rosa Luxemburg non solo comprende in sé tutte le grandezze e le contraddizioni di questa vicenda, ma, come ha scritto Luca Salza, «delinea i contorni di altre direzioni possibili del comunismo, che vanno oltre la forza, oltre la guerra, oltre la violenza, oltre la storia concepita come una successione di soprusi e dominazioni […], non solo alimentando un gioco di forze contrapposte (potere/contropotere, potere/resistenza, potere costituito/potere costituente), ma anche individuando il punto di rottura, facendo apparire la possibilità di un fuori irriducibile a questo gesto».

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009.
G. Di Benedetto, La primavera che viene. Attualità di Rosa Luxemburg, Mimesis, Milano-Udine 2021.
F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2022.
L. Salza, Rosa Luxemburg, divenire-donna di Spartaco, o su una politica comunista a venire, in “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, n. 3, 2019, pp. 48-62.
E. Traverso, Rivoluzione. 1789-1899: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021.

Hannah Arendt, Rosa Luxemburg, Mimesis, Milano-Udine 2022.

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