L’amore, il pomeriggio (1972).

Il cinema di Éric Rohmer è un cinema letterario? Per rispondere a questa domanda bisogna tentare di dare un significato più univoco al termine, isolare nel contesto di aspetti più periferici – l’ispirazione, le citazioni, gli adattamenti – un nucleo forte, legato al suo modo di raccontare. E occorre partire da lontano, dal momento in cui il cinema non è veramente entrato nella sua vita. Chiunque abbia letto l’Introduzione ai Racconti morali (Rohmer 1974) lo sa già: l’idea di quei testi – un’apparente novellizzazione dei sei film del ciclo – viene da un momento in cui il giovane Maurice Schérer non è ancora diventato Éric Rohmer e non immagina che un giorno si dedicherà al cinema. E quando in una celebre intervista parla di adattamenti di un’opera preesistente (Rohmer 1965, p. 56) si ha l’impressione di una giustificazione a posteriori. Solo negli ultimi anni, e soprattutto dopo la sua morte, da quando sono diventati accessibili i suoi archivi – prima per pochi ricercatori, poi per un pubblico meno ristretto – quelle parole hanno forse perduto un certo fascino dell’implicito, ma hanno acquistato una nuova dimensione: sono il punto di arrivo di un itinerario e il punto di partenza di una nuova stagione.

Allora torniamo indietro, agli anni quaranta, quando Schérer tenta la strada del romanzo: Élisabeth, pubblicato da Gallimard con lo pseudonimo di Gilbert Cordier, non ha successo. Resta comunque la letteratura, non certamente il cinema – come nel caso degli altri futuri registi della Nouvelle Vague – il suo orizzonte. Scrive ancora, questa volta dei racconti, e li propone sempre a Gallimard, ma vengono rifiutati e «la porta della letteratura si richiude brutalmente» (De Baecque e Herpe 2014, p. 40). Il titolo però, Racconti morali, è l’inconsapevole premessa – non ancora una promessa – di un ritorno futuro.

Il cinema, a poco a poco, ha il sopravvento: una cinefilia relativamente tardiva, e quindi più accelerata, rispetto a quella del gruppo che frequenta assiduamente i cineclub. Inizia, presto, l’attività di critico: per “La Revue du cinéma”, “Les Temps modernes”, “La Gazette du cinéma” – dove appare il suo pseudonimo Éric Rohmer – per “Arts-Spectacles”, per i “Cahiers du cinéma”, dove sarà anche caporedattore dal ’57 al ’63. La letteratura si rifugia nei suoi adattamenti, dalla Contessa di Ségur, da Poe, Tolstoj, Dostoevskij, ma non sono esperienze fortunate. Anche il suo esordio nel lungometraggio, Il segno del leone, è un fiasco. Poi la svolta, come ricorda lui stesso, tanti anni dopo, in un’intervista:

Mentre i miei compagni della Nouvelle Vague conoscevano il successo e giravano film dopo film, io restavo all’asciutto, non soltanto perché il mio primo film era stato un insuccesso al botteghino ma perché, come era già successo dopo il mio primo romanzo, mi sentivo bloccato, non sapevo cosa scrivere e non avevo nemmeno voglia di adattare un libro che amavo […]. E, improvvisamente, l’illuminazione: perché non adattare i Racconti morali? (Mouret 2007, p. 214).

Mentre Truffaut e Chabrol, dopo un brillante esordio, scelgono la strada dell’adattamento, Rohmer – l’unico nel gruppo ad avere scritto opere letterarie – ha già nel cassetto quello che serve: perché non partire proprio da lì? E così i racconti di Maurice Schérer, in una perfetta illustrazione della seconda chance, finiscono per nutrire i film di Éric Rohmer: titoli lontani – Il Revolver, Chantal, o la prova, Chi è come Dio? – sono la base narrativa per La carriera di Suzanne, La collezionista, Il ginocchio de Claire; un racconto più antico – Rue Monge del 1944 – è il punto di partenza per La fornaia di Monceau e La mia notte con Maud (Volpe 2016, p. 18); e solo l’ultimo racconto morale, L’amore, il pomeriggio, si presenta come un capitolo originale, a sé stante.

Su un punto preciso la testimonianza rohmeriana è chiara: l’uso del commento fuori campo si rivela indispensabile in un’impresa completamente letteraria, senza la minima influenza cinematografica. Ma sa bene che questa prima persona cinematografica, molto di moda, è stata ampiamente legittimata da tempo: celebrata da Jean-Pierre Chartier nel ’47 sulla “Revue du cinéma”, proprio la rivista dei suoi primi interventi critici. Così, i primi due racconti morali sono attraversati da parte a parte da questa voce e Rohmer ne dà, a consuntivo, una spiegazione molto diretta:

[…] far esprimere certe cose dagli attori, quando potrebbero essere dette benissimo dalla voce fuori campo, diventa teatrale. Trovo che sia molto meno cinematografico far dire qualcosa a qualcuno che informi lo spettatore su un punto che dirlo con la voce fuori campo. È meno artificiale. […] L’immagine non è fatta per significare, ma per mostrare. […] Per significare esiste uno strumento eccellente: il linguaggio parlato. Usiamolo. Esprimere con l’aiuto delle immagini quello che si può dire in due parole è fatica sprecata (Rohmer 1965, p. 57).

Nella stessa intervista definisce i Racconti morali «sfacciatamente letterari» proprio per il ruolo decisivo attribuito a quella voce, giustificandone però la purezza in relazione all’immagine: fa, sì, appello alla letteratura, ma solo per sottolineare la novità dell’insieme. Un’idea ribadita, nel 1971, nella Lettera a un critico, altro testo chiave per cogliere la progressione del progetto. Sono passati altri sei anni e altri tre racconti: La collezionista, La mia notte con Maud, Il ginocchio di Claire. Manca all’appello solo l’ultimo capitolo: L’amore, il pomeriggio. Così, nella varietà delle sue declinazioni, ha sviluppato «questa idea di mostrare un uomo sollecitato da una donna, nel momento stesso in cui sta per legarsi a un’altra» (Rohmer 1984, p. 90). Sono la seduttrice e l’eletta: nella definizione, pratica e tendenziosa al tempo stesso, di Marion Vidal (1977, p. 14).

Nel frattempo, però, è successo qualcosa. Chiunque abbia visto (e rivisto) La mia notte con Maud può intuirlo: quella voce così invadente nei primi tre racconti (considerando l’ordine di realizzazione e quindi l’inversione con La collezionista), è quasi scomparsa. Ma quasi è la parola chiave: due brevi interventi, all’inizio e alla fine, ci consegnano forse una verità ma sollevano soprattutto degli interrogativi.

Gli archivi rohmeriani – custoditi all’IMEC, all’Abbazia d’Ardenne, vicino Caen – ci suggeriscono almeno un percorso. La genesi di Maud è molto elaborata: un vecchio racconto, Rue Monge, che risale al 1944 (ora in Rohmer 2014, pp. 105-149); una sinossi di tre pagine che ha già tutti gli ingredienti del film futuro; e soprattutto due successive versioni della sceneggiatura, una manoscritta e una dattiloscritta. E lì la voce fuori campo è invece presente, soprattutto nella prima parte. Se confrontiamo il lungo silenzio iniziale del film – interrotto soltanto dalla parola liturgica e da rumori d’ambiente – con il monologo del protagonista che la pagina scritta ci rivela, quell’assenza di parola acquista all’improvviso l’evidenza di un’amputazione.

Ma Rohmer non si spinge fino in fondo, non elimina del tutto quella voce, ne conserva due brevi frammenti. Il primo, dopo circa dieci minuti, ci informa – da un futuro indefinito – sulla rivelazione «brusca, precisa e definitiva» dei sentimenti del protagonista. Il secondo, nell’epilogo, ci rivela il segreto di Françoise, che è stata l’amante del marito di Maud. Perché queste uniche tracce? Solo due brevi frasi, si è difeso il regista, «destinate semplicemente a metterci in guardia contro possibili errori di comprensione» (Rohmer 1984, p. 91). Sollecitato in varie interviste, ha però dato motivazioni più specifiche, spiegando quali siano state – nel contesto di una cancellazione resa possibile dai vantaggi del suono in presa diretta (rispetto ai primi racconti) e dalla recitazione di Trintignant – le ragioni del parziale ripescaggio:

Sì, per La mia notte con Maud, il film reggeva, e avrei potuto non mettere la frase iniziale […] e anche quella finale. Avrei potuto eliminarle del tutto. E lo spettatore avrebbe certamente capito. Se ho lasciato la prima è perché ho pensato che fosse più opportuno sapere quali fossero i sentimenti del personaggio nei confronti di Françoise […] e, per quanto riguarda la fine, ciò che mi interessava era che si sapesse non solo che lei aveva conosciuto il marito di Maud, ma anche che il personaggio principale lo apprendeva solo in quel momento (Marie 1970, p. 70).

L’accento cade dunque sulla tempistica della seconda rivelazione, subito insabbiata – è proprio il caso di dire – sotto una reiterata bugia. Ed è certamente la ragione più vistosa. Ma, se facciamo un passo oltre, ci rendiamo conto che quel secondo intervento è stato reso possibile proprio dal primo, che gli ha spianato il terreno: uno spettatore attento sa già che quell’immagine al presente è stata ricollocata in un passato. Il ruolo principale del commento sta proprio in questo rinvio, in questo potere – così naturale in letteratura – «di esprimere il passato» (Rohmer 1966, p. 123), in una giustapposizione temporale che ribadisce la fedeltà al progetto originario. Il doppio registro prospettico e temporale è la «filigrana letteraria» (Volpe 2016, p. 33) di questi racconti morali. Il regista è consapevole del fatto che il film venga percepito dallo spettatore al presente, ed è altrettanto deciso a disattivare quest’illusione: quella voce «coniuga al passato un racconto che l’immagine declina al presente» (Serceau 2000, p. 38). Una manovra sospesa nel Ginocchio di Claire e ripresa ancora una volta nell’ultimo film del ciclo, L’amore, il pomeriggio, dove perderà però quel carattere di correzione temporale.

Poi quest’uso del commento si eclisserà dal suo cinema: le Commedie e Proverbi e i Racconti delle quattro stagioni non recheranno traccia di quella prima persona e niente verrà a disturbare il coinvolgimento drammatico. Se i Racconti morali hanno rappresentato per Rohmer la prolungata transizione dalla letteratura al cinema, Maud è stato il momento di massima tensione tra questi due modi di raccontare e tra le due grandi stagioni della sua vita. E quell’ultimo ritorno con L’amore, il pomeriggio? Verrebbe da dire, come Fabien a Blanche nell’Amico della mia amica, che «quando lasciamo qualcuno per un altro, c’è sempre un breve momento in cui iniziamo a rimpiangere il primo». Ma sarebbe andare oltre: diciamo soltanto che ha preso congedo. È rimasto ancora un po’ sulla soglia, considerando la sua vocazione letteraria, osservandola diventare qualcosa del passato.

Torniamo al punto di partenza, a quella Introduzione ai Racconti morali che nel 1974 viene a suggellare il ciclo, questa volta sulla pagina scritta, in una versione esplicitamente letteraria, ripristinando – ove necessario – testi presenti nelle sceneggiature ed eliminati nei film. Lì, senza preamboli, libera un doppio quesito: «Perché filmare una storia, quando la si può scrivere? Perché scriverla quando si ha l’intenzione di filmarla?» (Rohmer 1974, p. 9).

I suoi racconti diventano l’oggetto di una confessione molto particolare. Non ha saputo scriverli, dice. E poi: li ha scritti, questo sì, ma solo per poterli filmare. Piccola, voluta ambiguità: allude ai racconti degli anni quaranta o alle sceneggiature degli anni sessanta? In realtà sta parlando della sua scrittura per il cinema e occultando – almeno parzialmente – la sua scrittura letteraria. Una misurata correzione estetica della realtà: è già andato oltre, il suo mondo è ora il cinema e tutto sembra incanalarsi in un disegno precostituito. E quel testo conserva della scrittura solo «la nostalgia».

Dopo, Rohmer rinuncia a quella dimensione, accettando pienamente la nuova scommessa. Rimane fedele però a quel cinema parlato che difendeva già nel 1948, in uno dei suoi primi articoli: «L’arte del regista non ha la funzione di fare dimenticare cosa dice il personaggio, ma, proprio al contrario, di permetterci di non perdere neanche una delle sue parole» (Rohmer 1984, p. 39).

Il suo è un vero «atto di resistenza nei confronti di un disegno di destituzione del linguaggio parlato a beneficio di un puro linguaggio d’immagine» (Bonitzer 1991, p. 19). Ma, non per essere di parola – e per quanto elaborata sia quella parola – il suo cinema è rimasto letterario, un’etichetta che gli è rimasta addosso a dispetto del suo modo di filmare la realtà (Bergala 2007: 96). La parola è lì, presente, ma incarnata nei corpi, dentro un nuovo modo di raccontare. Ha saputo ricominciare, ha colto altrove la sua vocazione di narratore.

Riferimenti bibliografici
A. Bergala, Éric Rohmer: évidence et ambiguïté du cinéma, Éditions Le Bord de l’eau, Sofia 2007.
P. Bonitzer, Éric Rohmer, Éditions de l’Étoile/Cahiers du cinéma, Parigi 1991.
A. De Baecque, N. Herpe, Éric Rohmer, Éditions Stock, Parigi 2014.
J.-P. Chartier, Les «films à la première personne» et l’illusion de réalité au cinéma, in “La Revue du cinéma”, gennaio 1947.
J.-N. Mouret, a cura di, Entretien avec Éric Rohmer, in É. Rohmer, La maison d’Élisabeth, Gallimard, Parigi 2007.
M. Marie, Entretien inédit avec Éric Rohmer (1970), in Éric Rohmer «Tout est fortuit sauf le hasard», Studio 43 M.J.C. de Dunkerque, 1992.
É. Rohmer, L’ancien et le nouveau, in “Cahiers du cinéma”, n. 172, novembre 1965.
Id., Réponses à «Questions aux cinéastes», in Film et roman. Problèmes du récit, in “Cahiers du cinéma”, n. 185, 1966.
Id., Six Contes Moraux, Éditions de l’Herne, Parigi 1974.
Id., Le gout de la beauté, Éditions de l’Étoile, Parigi 1984.
Id., Friponnes de porcelaine, Stock, Paris 2014.
M. Serceau, Éric Rohmer. Les jeux de l’amour, du hasard et du discours, Éditions du Cerf, Parigi 2000.
M. Vidal, Les contes moraux d’Éric Rohmer, Lherminier, Parigi 1977.
S. Volpe, La mia notte con Maud: un’analisi. Ritorno a Clermont-Ferrand, Kaplan, Torino 2016.

Eric Rohmer, Tulle 1920-Parigi 2010. 

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