di SIMONA BUSNI
Rocketman di Dexter Fletcher.
Rocketman è la storia di un uomo-razzo, che sta fondendo le sue valvole (burning out his fuse up), volando in alto, da solo, nello spazio sconosciuto che lo separa dalla sua meta (Marte, forse, o un qualche altro luogo lontanissimo e freddo, dove non è possibile far crescere dei bambini). Sente la mancanza della terra, dell’amore, e non capisce il senso di tutta questa scienza: si tratta semplicemente del suo lavoro, cinque giorni a settimana, ma in realtà lui è un uomo molto diverso – in un’accezione che probabilmente non è in grado di accettare e di spiegare fino in fondo. Se tra le centinaia di canzoni scritte e interpretate da Sir Elton John (al secolo, Reginald Kenneth Dwight), nei primi vent’anni di carriera, si è scelto di utilizzare il titolo di questo celeberrimo brano del 1971 per il suo biopic – presentato in anteprima durante l’ultimo Festival di Cannes – la ragione è da ricercare probabilmente nel senso di burnout espresso dalla canzone, intorno al quale viene ricostruita la storia del protagonista (Taron Egerton), che entra in scena vestendo i chiassosi panni di un demonio arancione interamente ricoperto di piume e lustrini.
Non è il palco la sua destinazione, ma una stanza piena di luce alla fine di un lungo corridoio in cui lo attende un gruppo di pazienti in riabilitazione. La surreale irruzione del cantante mette in moto il racconto vero e proprio e spalanca la dimensione alternativa della sua infanzia di musicista prodigio cresciuto negli ordinari sobborghi di Pinner, alle prese con una mamma troppo frivola (Bryce Dallas Howard) e un padre pilota – un altro uomo-razzo – perennemente assente e, in qualche modo, spaventato dalla stranezza del figlio.
Nonostante le premesse, i toni del film sono tutt’altro che drammatici. Il ritorno al passato (introdotto dalle note di The Bitch is Back), per quanto doloroso e pieno di nodi irrisolti, diventa il pretesto narrativo che innesca il cambio di registro, modulando il linguaggio del musical. Perché Rocketman è un ibrido, nel senso positivo del termine. L’operazione compiuta da Fletcher in questo film è, infatti, diametralmente opposta a quella del precedente Bohemian Rhapsody (2018), in cui il regista inglese ha, di fatto, sostituito sul finire il collega Bryan Singer, licenziato dalla produzione. Lo stesso si può dire per l’interpretazione di Egerton, che pur risultando completamente credibile nel ruolo (anche come cantante, la voce è la sua), sceglie di non fare Elton John – da questo punto di vista, è agli antipodi rispetto al mimetismo fisico del pluripremiato Rami Malek, che pur non aveva osato violare il sacro tempio dell’estensione vocale di Freddy Mercury.
In generale, l’intento non è quello di ricostruire, più o meno fedelmente o realisticamente, una parte della vita dell’artista, confezionandone una sorta di parabola celebrativa (gli inizi, i primi successi, la gloria, la caduta, il riscatto); Rocketman, al contrario, funziona come un classico musical integrato, in cui si canta e si danza ovunque, e in cui ogni canzone diventa la cornice attrazionale di un preciso numero. Trattandosi della vita di una blasonata rockstar, è normale che alcuni di questi numeri comprendano esibizioni in locali o in teatri e concerti negli stadi, ma anche in questi determinati frangenti, marcati da una loro spettacolarità intrinseca, l’immagine si tinge di sfumature oniriche e metamorfiche, mostrandoci movimenti di mondo (per dirla à la Deleuze) che proiettano i personaggi nell’ombra dilatata di un’ulteriore realtà: eccessiva, fantasmagorica, stupefacente, poetica.
Quando il giovane, ancora semi-sconosciuto, Elton si esibisce per la prima volta al Troubadour di Los Angeles, vediamo i suoi buffi scarponi sollevarsi dal palco (mentre le mani restano ancorate al pianoforte) e l’intero pubblico levitare nell’estasi delirante del Crocodile Rock. Tutto nel film si gioca sul confine del contrasto, per certi versi indecifrabile, tra levità e pesantezza, in un senso evidentemente opposto rispetto alle tipiche commedie musicali hollywoodiane. Il protagonista stesso ci viene restituito come un personaggio intrappolato in un corpo “grassottello”, ma il suo problema non è affatto il peso: al contrario, è come se dovesse fare i conti con un implacabile destino ascensionale, una forza interiore che lo rilancia perennemente verso l’alto, in orbita. Per questo sente il bisogno di zavorrarsi e lo fa tramite i suoi celeberrimi variopinti travestimenti, a suon di occhialoni, corna, pennacchi e zeppe glitterate.
Dentro di lui si agita il respiro di un’energia musicale incontrollabile, un vortice informe e potente che si rigenera nelle oscure cavità della sua mente melodiosa in attesa di potersi legare alle parole. E infatti il film ci parla proprio di questo – dell’ineffabile miracolo che accompagna ogni fatale incontro tra melodia e testo – sviluppando la vicenda relativa al rapporto tra Elton John e il suo storico paroliere Bernie Taupin (Jamie Bell), due anime piene di talento, dedite per oltre cinquant’anni a una pratica armoniosa di do ut des, musica in cambio di parole, parole in cambio di musica.
Per lo spettatore vedere (ri)nascere sullo schermo il senso originario di una canzone, come se fosse un clamoroso dono, è un privilegio: questa è la tua canzone, puoi dirlo a tutti, anche se semplice, mi è venuta così, spero che non ti dispiaccia se ho deciso di metterci queste parole… Le parole di Your Song (1970), trasmigrando di film in film, di spettacolo in spettacolo, di cover in cover, sono finalmente tornate a casa.
Così come il suo creatore, Elton John, che dopo aver vestito per decenni i panni di un personaggio eccentrico e dissacrante, incrociando il cinema a più riprese, sia come autore di colonne sonore, sia come interprete – tra le altre cose, è stato uno psichedelico Pinball Wizard nel musical Tommy (Russel, 1975) degli Who e ha recentemente recitato un cammeo, nella parte di se stesso, in Kingsman: il cerchio d’oro (Vaughn, 2017), accanto al suo futuro alterego Taron Egerton – paradossalmente è riuscito a uscire dal personaggio, consegnandolo al racconto e riaffermando in via definitiva la sua identità di artista vivente (I’m still standing, better than I ever did…).
Forse è per questo motivo che Rocketman non si conclude con frasi lapidarie o con immagini particolarmente edificanti, ma solo con la constatazione che, nonostante il musicista non faccia più uso di droghe da quasi trent’anni, abbia ancora problemi con lo shopping. Come a dire: se sei un artista sopravvissuto al burnout, puoi anche concederti il lusso di produrre un film sulla tua vita e di farlo con un po’ di sana autoironia. In leggerezza, a passo di danza.