Quasi simbolicamente, la Mostra di Venezia quest’anno si presentava come la fotografia di una situazione mobile, di passaggio. Di fronte, sull’isolotto del Lazzaretto Vecchio, si proiettavano (termine quanto mai inappropriato) i lavori della sezione “Virtual Reality”: e già l’immagine di questa isola-lazzaretto popolata di immagini mentali era degna dell’Invenzione di Morel. Tra i film, poi, la forma-lungometraggio era serenamente circondata dalle forme televisive nemmeno della tv tradizionale, ma della piattaforma in streaming di Netflix, che proponeva non solo un t-movie vecchio stile con la coppia Fonda-Redford, ma anche un prodotto italiano di genere (Suburra) e un’affascinante operazione come la docufiction di Errol Morris (Wormwood). Non si tratta di un “cinema espanso” nel senso della sperimentazione artistica, bensì di un movimento interno alla tecnologia e all’industria dell’audiovisivo, col quale anche i festival generalisti fanno i conti. Su questo sfondo, le difficoltà del cinema d’autore assumono un significato non accidentale. Quella di quest’anno è stata una buona edizione (almeno per quanto riguarda il concorso principale) pur senza picchi. Ma il dato che emergeva era la difficoltà di un cinema d’autore più creativo, di sperimentare linguaggi interessanti all’interno del mezzo-cinema.
Dall’altro lato, la sfida delle serie-tv spinge verso una cura esclusiva della narrazione, trascurando la creazione di senso attraverso il momento della mise en scène, con la caratteristica che le figure centrali del cinema come lo abbiamo conosciuto (i registi, ma anche i divi) perdono di centralità. E il cinema “d’autore” rischia di essere sempre meno un luogo in cui sperimentare delle idee formali all’altezza del proprio tempo, e sempre più un genere tra gli altri (coi suoi sottogeneri: il Dardenne, il Nordico-Misantropo, l’en-plein-air). Il film più sorprendente della mostra non era in concorso: Zama di Lucrecia Martel, adattamento di un classico del realismo magico degli anni ’50, film in costume carnalissimo, apologo claustrofobico sul potere che però interagisce con forza con un set, e a metà diventa un’altra cosa. Tra Albert Serra e Herzog, un esperimento folle, a tratti ostico, pienamente figlio di una tradizione e insieme liberissimo. Altra eccezione, l’ultimo tassello del grande affresco sull’America di Frederick Wiseman con Ex Libris, film sulla Public Library di New York ma in realtà su un sistema di biblioteche che diventa una visione di città disseminata, e anche (nelle due dichiarazioni iniziali e finali) una dichiarazione di poetica, sulla pazienza e la cura del guardare, dell’agire nella società, dell’archivio e del servizio al pubblico: all’inizio Richard Dawkins fa una professione di materialismo, ma anche della bellezza del mondo materiale, che Wiseman condivide. E anche nel finale, parlando dell’arte della ceramica un conferenziere si interroga sul rapporto tra reale e forma artistica, e sull’importanza di una ricostruzione genetica dell’oggetto rappresentato, di una sua anatomia che sia anche archeologica. L’importante è osservare il processo con cui si fanno le cose, è il modo in cui siamo fatti a definirci, dicono le ultime frasi del film citando Primo Levi.
In generale però la presenza americana era divisa tra un cinema d’autore preda delle proprie ossessioni, e un cinema mainstream invece controllatissimo, classicamente riuscito. Certo, c’era qualche ragione di principio nei cinefili che difendevano il film di Paul Schrader (un Curato di campagna calvinista aggiornato alla crisi ecologica, con una parte finale visionario-kitsch) o addirittura Darren Aronofsky (Mother!: un gioco di variazioni su temi di Polanski, che nella seconda parte impazzisce tra metafore politiche pesantissime e inni alla donna-musa-mamma). E però si tratta di operazioni da un lato derivative, dall’altro incerte quando si muovono su territori nuovi. Inutile negarlo: era molto maggiore la riuscita di titoli più tradizionali, e addirittura con un sospetto di contaminazione con l’immaginario fanta-vintage delle serie tv, come Downsizing o Suburbicon (con sceneggiatura intelligentemente politica dei Coen), il gioco cinefilo di Del Toro premiato con il Leone (The Shape of Water), e soprattutto Three Billboards outside Ebbing, Missouri, sorpresa del festival ma anche film solidissimo, di scrittura, che contamina il noir alla Fargo con un immaginario southern alla Flannery O’Connor.
Ancora più evidenti i limiti del cinema più esplicitamente politico. Volendo tacere sul vergognoso film di Ai Weiwei, di estetizzazione del dolore e di insopportabile narcisismo, le aporie del “Film col Tema” erano evidenti in due film speculari del Medio Oriente, il libanese The Insult (di Ziad Doueiri) e l’israeliano Foxtrot (di Samuel Maoz). La metafora e il teatro dell’assurdo si rivelano scorciatoie, e in un caso lo spunto della lite per futili motivi che degenera nel caos è stravista e raccontata secondo meccanismi scontati; nell’altro caso, forse più pernicioso, c’è tutta l’astuzia della metafora, di un cinema che guida passo passo, fra mille trabocchetti, verso un partito preso in realtà rigidissimo, fintamente dialettico.
I due nomi più rilevanti del cinema d’autore europeo, Abdellatif Kechiche e Roberto Guédiguian, approfondivano i propri temi tentati continuamente, specie il primo, dal dar respiro alle immagini. Eppure era Guédiguian (La villa), all’interno di una storia molto strutturata, a trovare quasi involontariamente qualche momento renoiriano, e a ricordarci involontariamente, in una scena, le possibilità diremmo epifaniche del mezzo. A un certo punto sullo schermo compaiono i tre protagonisti da giovani, in immagini gioiose e vitali, tratte da un vecchio film del regista, Ki Lo Sa? (1985). Se Jean Cocteau diceva che il cinema è la morte al lavoro sulle facce degli attori, un regista stoico e in fondo ottimista come Guédiguian sembra dire che è semplicemente la vita, al lavoro. Kechiche invece, paradossalmente, sembra essere quasi più programmatico, o quanto meno più volontaristico, nel suo raccontare il coming of age di un giovane timido attorniato da donne, con il sole e i controluce e la musica che rendono davvero il fluire di un’estate e di una giovinezza. Ma la consapevolezza fa capolino in alcune scene decisive: come nella scena del parto di una pecora, ripreso lungamente come una metafora del miracoloso rivelarsi della vita e del reale, ma con tagli interni di montaggio, controcampi e una musica “nobilitante”. Finché non si fa strada una delle più genuine ossessioni del regista, quella per i corpi femminili, che in parte nutre il film e in parte sembra, al contrario, vampirizzarlo.
Assai istruttiva era invece l’articolazione del cinema italiano. Quasi una trentina di titoli tra fiction e lungometraggi, dei quali una buona metà non indimenticabili. Ma insieme, questi film consentivano di farsi un’idea complessiva interessante. Rispetto a Cannes, in cui la linea forte del cinema italiano appariva quella di drammi sociali che traevano forza dalla metodologia del documentario e del lavoro sul campo (A ciambra, L’intrusa, Cuori puri) al Lido si è visto un panorama assai più vario, con autori interessati ad aggiornare i temi e le forme, e magari a ricercare un rapporto con un nuovo tipo di pubblico. Se geograficamente i poli dell’immaginario restavano la Campania e le periferie di Roma, le forme di racconto andavano dal musical d’animazione (Gatta cenerentola) al musical noir (Ammore e malavita), dalla sceneggiata tragica (Veleno) al re-enacting documentario con attori non professonisti (Il cratere), dall’imitazione trucida di Jeeg Robot (Brutti e cattivi, il film peggiore visto al Lido) al mélo minimalista americano perfettamente imitato (The Leisure Seeker), dal cinema d’autore all’europeo “disossato” fatto seguendo tutti i dettami del genere (Hannah di Pallaoro) a quello invece più mélo e sanguigno (il disastroso Una famiglia di Sebastiano Riso), al puro genere (Suburra).
C’era anche una vena di osservazione minuta, quasi da neorealismo rosa, della realtà quotidiana meridionale (La vita in comune di Winspeare, il documentario Happy Winter di Totaro), un piccolo ma notevole esempio di quella scuola di dramma sociale presente a Cannes, (Manuel di Dario Albertini) film che guardavano al teatro, riprese di “cinema medio d’autore” anni ’90 ecc. Certo, alcuni dei titoli più riusciti erano quelli che arricchivano o smontavano dall’interno, con un attento lavoro di regia, dei classici “temi forti” cercando di problematizzare la messa in scena, di non restare schiavi del contenuto: era il felice caso di Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero e L’ordine delle cose di Andrea Segre. L’esempio di un cinema d’autore italiano più originale e avanzato era forse Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, che al terzo film trova una sorprendente dimensione. Un film europeo, che tematizza questa dimensione produttiva, perché è anche un film sull’Europa, che ne racconta il tramonto attraverso il ritratto di una banda di relitti, che portano con sé il fallimento di una generazione, e attraversano il grigiore dell’Est e dell’Ovest un attimo prima che tutto cambi. In lontananza riemergono i fantasmi di una nascita già tragica di quest’Europa, coi flashback di Nico bambina che si muove in una “Germania anno zero”, mentre i decenni trascorsi della creatività, della libertà e dell’utopia sono evocati solo nelle immagini d’epoca di Jonas Mekas.
Qualunque cosa si voglia dire del cinema italiano, non si potrà più ripetere lo stereotipo di un cinema poco coraggioso, provinciale, avviluppato nei circoli viziosi dei ministeri. Al contrario, sia dal punto di vista artistico che da quello dell’elaborazione industriale esso dava un’impressione di vitalità, anche incerta e confusa, di tante strade (e vicoli ciechi, certo), di confronto con modelli narrativi pienamente contemporanei, di contaminazione e aperture a nuove forme di comunicazione, cercando anche un contatto non ovvio con un pubblico, che al momento però (e non solo per il cinema italiano) è difficile immaginare quale sia. Insomma, se non entusiasmo, davvero era difficile non provare curiosità per il cinema italiano.