La comparsa di Tom Ripley nello scenario della serialità ricorda l’importanza del remake nel creare un dialogo continuo tra le diverse interpretazioni e versioni della stessa storia (Belau, Jackson 2018). Il remake, infatti, svolge un ruolo centrale nell’intrattenimento contemporaneo, poiché evidenzia l’affinità strutturale tra la serialità e i processi di ripetizione e variazione delle storie.

Ripley, miniserie distribuita da Netflix, ideata e diretta da Steve Zaillian, si inserisce proprio in questo crinale: ingranaggio di una fortunata catena di adattamenti generati a partire dal romanzo Il talento di Mr. Ripley (1955) di Patricia Highsmith, composta da Delitto in pieno sole (1960) di René Clément e Il talento di Mr. Ripley (1999) di Anthony Minghella (dopo questo, Highsmith ha pubblicato altri tre romanzi; tra questi si segnala L’amico americano, fonte di ispirazione per Wim Wenders prima e Liliana Cavani dopo). Ripley, infatti, stabilisce una stretta relazione con l’origine letteraria e il passato cinematografico dell’umbratile personaggio creato dalla scrittrice americana, confermando e rielaborando gli elementi principali della storia in un intricato labirinto di immagini fredde, statuarie, e potenti richiami intermediali. E se come ricorda Kathleen Loock, il remake, soprattutto nella sua versione seriale, è indice di un passato che non è mai passato (2014), è possibile inquadrare Ripley come un esempio in cui la tradizione narrativa del personaggio viene ravvivata tramite il recupero del plot romanzesco e una lucida riflessione attorno alla tradizione estetica del film noir, di cui vengono rielaborati gli elementi distintivi in chiave contemporanea.

La storia, infatti, aderisce ai contorni di quella originale. Tom Ripley (Andrew Scott), un giovane impostore che vive d’accatto grazie a piccole truffe finanziarie, falsificando documenti, raggirando banche, viene ingaggiato da un facoltoso imprenditore navale per riportare il figlio, Dickie Greenleaf (Johnny Flynn), dall’Italia – più precisamente da Atrani, nella costiera amalfitana – a New York. Una volta giunto ad Atrani, Tom rimane profondamente ammaliato dalla bellezza di Dickie e dal suo stile di vita confortevole, scandito dall’agio della sua villa, l’ozio in spiaggia e un’inconsistente passione per la pittura. Immediatamente prende forma in Tom un tortuoso percorso di sdoppiamento: dopo aver ucciso Dickie, assume la sua identità per occultarne la morte, avviando così un intricato gioco di maschere che si sovrappongono in modo sfuggente con gli amici della vittima e la polizia, innescando una fuga che attraversa l’Italia degli anni sessanta da sud a nord.

Se, per l’appunto, il plot non si discosta fondamentalmente dalle versioni precedenti, è l’organizzazione del visibile che riprende la vena della sperimentazione formale che ha contraddistinto la stagione del noir classico (Costa 2020), rielaborando la funzione espressiva della dialettica tra luce e ombra a partire dal ricorso al bianco e nero, reso indelebile dalla pregiata fotografia di Roger Elswit. L’addensamento iperbolico dell’ombra, tratto distintivo del noir, viene sbiancato senza eliminarne l’emanazione umbratile, come dimostrano bene le scene ambientate ad Atrani, dove la solarità mediterranea trascolora in una frigida staticità dai tratti metafisici. L’uso incisivo del bianco e nero aggira allora la facile idealizzazione nostalgica verso il noir classico e il ricorso scontato a un’estetica “vintage”; piuttosto, si colloca all’interno di una rielaborazione stilistica del genere tramite la sottrazione (evidente nei dialoghi scarni, nei silenzi e nei primi piani granitici) e l’iterazione di scene e immagini.

Con questo meccanismo stilistico le scene si caricano di una tensione costante che raggiunge il culmine nell’accostamento di sferzate violente e placide rarefazioni (come mostrano gli intensi campi lunghi durante l’escursione in barca di Tom e Dickie a largo di Sanremo). Ci sono infatti nuclei di immagini che si ripetono: la vista dei carabinieri ad ogni sbarco in una nuova città; le monetine lasciate nei tavoli dei bar; l’acquisto dei quotidiani; gli oggetti riposti metodicamente in ogni nuova abitazione (portasigarette, profumo e macchina fotografica); sigarette poggiate in grandi (e micidiali) portacenere; i dialoghi sempre uguali con i portieri dei diversi alberghi frequentati; la firma esibita con la stilografica di Dickie – piccoli segni di una retorica del dettaglio che si fa foriera di simbologie e scandisce sostanzialmente il ritmo della narrazione.

In questo quadro di iterazioni, spicca prepotentemente la presenza di scale e scalinate, scalcinate, cunicolari e interminabili (come quelle di Atrani, dei palazzi nobiliari di Palermo, ecc.), di elementi architettonici obliqui (come i canali e i ponti di Venezia) restituiti con tratti espressionistici e surreali alla Escher, che tracciano una corrispondenza spaziale tra gli intricati percorsi della scalata sociale di Tom e la labirintica inafferrabilità della sua identità.

Se l’azione viene dunque sostituita da un tessuto di ripetizioni e gesti rituali, lo sdoppiamento identitario di Tom/Dickie viene organizzato in un continuo confronto tra l’alto e il basso, l’opulenza e lo squallore (i repentini cambi d’albergo: dall’Excelsior a una anonima pensione a Roma, dall’Hotel Palma all’angusto Hotel Savona a Palermo); ovvero, tramite l’allestimento di simmetrie rovesciate che rimarcano continuamente il dualismo della personalità del protagonista.

L’ambiguità di Tom trova poi una suadente corrispondenza in una serie di richiami intermediali. Oltre a prendere possesso dei beni di Dickie (l’anello, le scarpe, la stilografica e la brutta vestaglia), Tom assorbe vampirescamente anche la sua passione verso l’arte: non solo l’interesse per la pittura (con risultati oggettivamente migliori rispetto a quelli di Dickie), ma soprattutto la fascinazione totale verso l’opera di Caravaggio. Ogni tappa del viaggio-fuga di Tom/Dickie coincide con la visita ai luoghi in cui sono conservati uno o più dipinti di Caravaggio, delineando l’affinità tra le luci e le ombre impresse sulla tela del pittore con la tela di inganni tessuta da Ripley. Il legame tra Caravaggio e Tom trova una forte materializzazione nell’episodio finale, in cui la già annunciata sovrapposizione trova una sua definitiva esplicitazione. In questo, la lezione dei chiaroscuri caravaggeschi si materializza nell’allestimento dello spazio che ospita l’atteso confronto con il metodico ispettore Ravini (Maurizio Lombardi): le traiettorie delle luci e i coni d’ombra ricreati da Tom nella sua sontuosa sala veneziana aggirano nuovamente la verità, sviando facilmente l’ispettore. Del resto, uno degli elementi più dirompenti nella serie riguarda proprio la forte analogia tra l’ispirazione artistica e il raffinato artificio della falsificazione.

La tortuosa geometria degli inganni di Tom, dispiegata episodio dopo episodio, trova infine un ulteriore rispecchiamento nel dipinto Il chitarrista di Picasso (trafugato dall’abitazione di Dickie): le linee e gli incastri tracciati nel quadro traducono graficamente la complessa ambiguità dell’identità del protagonista, ribadita sempre nell’episodio finale dall’insistito campo-controcampo tra i dettagli pittorici e lo sguardo contemplativo e compiaciuto di Tom.

Ripley, allora, poggiando sulla solidità di una narrazione ben conosciuta, indagata nei suoi diversi risvolti e pieghe negli adattamenti cinematografici precedenti (si pensi, ad esempio, a quello fortemente incentrato sull’eros e thanatos omoerotico di Minghella), prolunga la dialettica ombra-luce del noir verso la sperimentazione formale della pittura, rappresentata dalle opere di Caravaggio e Picasso. Tramite queste emanazioni intermediali, la serie argomenta visivamente la moltiplicazione delle sfaccettature identitarie di Tom Ripley (come viene ben espresso dalla locandina promozionale di Netflix), riattivando così tutta la sua inesauribile quanto fantasmatica attrazione figurale.

Riferimenti bibliografici
L. Belau, K. Jackson, Introduction: Bingin on Horror, in Horror Television in the Age of Consumption. Binging on Fear, Routledge, New York 2018.
A. Costa, Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile, Einaudi, Torino 2022.
K. Loock, “The past is never really past”: Serial Storytelling from Psyco to Bates Motel, in “Literatur in Wissenschaft und Unterricht”, vol.1, n. 2, 2014.

Ripley. Ideatore: Steven Zaillian; interpreti: Andrew Scott, Dakota Fanning, Johnny Flynn, Eliot Sumner, Margherita Buy, Maurizio Lombardi, John Malkovich; produzione: Endemol Shine North America, Entertainment 360, Diogenes Entertainment, FILMRIGHTS, Showtime Studios; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America, Italia, anno: 2024.

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