Under the Tree (in lingua originale Undir trénu), quarta opera del regista e scrittore Gunnar Hafsteinn Sigurđsson (dopo Either way nel 2011, Prince Avalanche nel 2013 e Paris of the north nel 2014), è forse un film meno cinico e meno consacrato a quello che sembrerebbe talvolta essere un classico black humour di quello che si pensi.

Se è vero che questo film ci dimostra che il conflitto è una delle condizioni fondamentali del presente che viviamo, è ancor più vero che alle “radici” di tale conflitto c’è la volontà di non rinunciare, a qualsiasi prezzo, ad un simbolo: l’albero. Quest’ultimo, che non a caso appare nell’immagine scelta per il manifesto come “stilizzato” nel disegno di un bambino, è per Inga – una dei vari protagonisti di un lungometraggio a tutti gli effetti corale – una sorta di reincarnazione del figlio maggiore suicida. Dapprima viene da pensare che la donna sia folle – e forse lo pensano anche il marito, completamente succube della moglie, e suo figlio. Questo, trasferitosi di nuovo dai genitori da pochi giorni improvvisamente e inaspettatamente, per lo più si assenta mentalmente dalla vicenda che si dipana sotto ai nostri occhi, distratto dal gelo e dalla rabbia dolorosi in cui è piombato il suo rapporto coniugale dopo una masturbazione colta sul fatto davanti ad un vecchio video che lo riprendeva con la precedente compagna mentre facevano l’amore. Ma la simbolizzazione che Inga, ormai abbandonata alla sofferenza trasandata di chi ha visto portarsi via qualcosa alla cui perdita non si può resistere, affida alla pianta che si rifiuta di potare come vorrebbero invece i suoi vicini di casa, è molto meno folle e astratta che lucida e incarnata. Una madre privata irrimediabilmente, anche se solo per metà (a sua detta la metà “forte”), della propria genitorialità (e la frustrazione per il vuoto incolmabile lasciato da un figlio che sparisce è senza dubbio un motivo che devastante si ripete nel vuoto di un figlio che non c’è mai stato e non riesce ad arrivare, nel caso di Konrad e Selma, e in quello di una figlia che per poter riapparire a fianco del padre deve essere “rapita” dall’asilo e portata a mangiare un gelato all’Ikea, nel caso di Atli e Agnes), è una madre che non può permettersi fisicamente di subire alcuna altra sottrazione, alcun altro rimpianto.

Per lo stesso regista l’albero del film, come racconta in un’intervista, diviene quasi sacro nel rappresentare quell’immagine improvvisa, verde e inusuale che lo incuriosì dieci anni fa e gli permise di affacciarsi sull’episodio reale che gli donò lo spunto iniziale per il film. Il regista racconta di aver assistito ad una disputa tra vicini riguardante un acero che gettava la sua gigante ombra nel giardino a fianco infastidendone gli inquilini, in un quartiere residenziale islandese in cui gli alberi e il sole caldo dell’estate, sono rari alla pari. Questo episodio, brutale e affascinante come sempre sono a suo avviso le “piccole guerre” che tirano fuori il “peggio dell’essere umano”, fece da catalizzatore alla costruzione narrativa di Under the Tree, a partire dall’affannosa ricerca di un albero che potesse eguagliare quello originale. Avendo già scelto la location – due villette a schiera nella periferia di Reykjavík nel tipico stile architettonico minimale degli anni ’60 – bisognava però trovare un albero che si fosse disposti a sradicare per poi reimpiantarlo nel giardino prescelto dalla troupe. Sigurđsson scrive un vero e proprio annuncio per scovare quello giusto, e, poiché una volta reimpiantato l’albero avrebbe perso la sua folta chioma, filma quest’ultima su uno sfondo blu – quel blu che manca ai suoi occhi nel suo Paese e che colora difatti le abitazioni che ha scelto, prezioso e introvabile anch’esso – per poi piantare sul set solo il tronco rimontando le immagini delle fronde, spesso e a diverse distanze inquadrate nel film, sull’arbusto spoglio.

Può sembrare che tutto ciò non abbia alcun rilievo ai fini del film. In realtà, a pensarci bene, l’attenzione quasi maniacale che accompagna questa decisione e questo gesto è la stessa che imbeve ogni azione dei personaggi del film – tutti attori straordinari, la maggior parte dei quali soliti recitare nelle commedie umoristiche (Steinþórsson, Björgvinsdóttir, Sigurjónsson, Bachmann). Se per Sigurđsson il prezzo da pagare per il “simbolo” è solo quello di passare una cospicua porzione di tempo in più in sala di montaggio, per i nostri personaggi è quello di lasciarsi andare a violenze consecutive e incrociate che conducono irreversibilmente da un apparentemente piccolo e insignificante evento – Selma che dopo il suo jogging mattutino vorrebbe abbronzarsi un po’ e chiede ai vicini di potare l’amata pianta che gli copre il sole – ad un’atavica voglia di vendetta che innalza la storia di due famiglie a storia “universale”. Storia di identità che si scontrano e non si accettano, storia di torti e ragioni impossibili da districare dall’amalgama in cui sorgono.

Le ruote di una macchina vengono bucate, un gatto preso in ostaggio, un cane soppresso e imbalsamato, un figlio ucciso mentre in una tenda si stordisce di musica elettronica sotto un peso che, reale e non metaforico, gli si sta solo esplicitando in uno schiacciamento di cui risente da tutta la vita. Il film, in un grigio luminoso quanto quello di Haneke o di Vinterberg che prepotente impone alla statica del contesto la profondità tridimensionale di un assurdo concatenarsi di aggressioni, acquista progressivamente ritmo, perché anch’esso non può lasciarsi dietro rimpianti: niente e nessuno, in questo turbine che ci lascia increduli e agghiacciati, può essere risparmiato dalla forza di un simbolo che parte come l’elemento primario, irriducibile e irrinunciabile istanza di tutto il resto. Fino alla scena ai limiti dello splatter in cui una cantina si tinge del sangue più rosso che ci sia, quello vano.

Ma il senso di nausea e di amarezza procuratici da quella che sentiamo di primo acchito essere la vanità di tutto questo, vengono sbalzati proprio negli ultimi secondi della pellicola da un “colpo di coda” letterale: quello del gatto di Inga che torna a casa con passo felpato perché in realtà, ed era stata questa la causa più sentita del vortice di ripicche, si era allontanato di sua spontanea volontà. Questo confermerebbe potentemente la vanità delle azioni, se non fosse per l’espressione della donna, unica sopravvissuta, che asciutta e impassibile testimonia in via definitiva che non c’era modo che le cose andassero diversamente. A sopravvivere non è solo lei, ma anche quel groviglio di carne e rami che, se anche ormai distrutto nel crollo omicida sulla schiena del secondogenito, persisterà dentro di lei e in quell’arrosto condito alle lacrime che continuerà a mangiare in onore del primogenito.

Perché sul rimpiangere un ricordo disincarnato, vincerà sempre il reimpiantare, per quanto atroce, la memoria che non si vuole smettere di coltivare.

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