Tra le nuvole (Reitman, 2009)

La lettura dell’accurata e esaustiva recensione che Felice Cimatti ha fatto del recente volume di Jedlowski e Cerulo in queste stesse pagine di Fata Morgana Web ha in me suscitato due reazioni. La prima, l’interesse per l’oggetto della recensione e, contemporaneamente, il ricordo del film Up in the air, tradotto in Italiano Tra le nuvole. Si tratta di un film, per certi versi profetico, che descrive i processi di lavoro e le relazioni umane nelle organizzazioni contemporanee. Il film è diretto e sceneggiato (con Sheldon Turner) da Jason Reitman; la sceneggiatura è tratta dall’omonimo romanzo di Walter Kirn.

Ryan (nome non anonimo nell’aviazione civile) Bingham, il protagonista, svolge uno dei ruoli che spesso le aziende chiedono, pagando profumatamente, ai consulenti esterni di svolgere: implementare cambiamenti organizzativi difficili, dolorosi e impopolari. Nello specifico il protagonista è chiamato a licenziare, senza alcuna compassione, i dipendenti in nome dell’efficienza organizzativa. Efficienza, in questo contesto, è un eufemismo che indica ridurre i costi e incrementare i profitti in tempo di crisi (anche apparente) attraverso la drastica riduzione dei livelli occupazionali.

La globalizzazione, almeno fino al Covid-19 e alla guerra in Ucraina, ha dato l’illusione, attraverso processi di americanizzazione e omologazione di forme organizzative e di mercati, che il mondo si fosse rimpicciolito e che le differenze storiche e culturali potessero facilmente essere accorciate ed eliminate attraverso soluzioni “tecnico-professionali”. Questa illusione ha dato origine a una nuova specie di manager: un’élite di specialisti di processi organizzativi, tecnici qualificati, quasi apolidi, le cui competenze, apprese anche in aule multinazionali, non erano situate, circoscritte ai contesti, ai luoghi in cui le aziende multinazionali sono localizzate, quanto atopiche e universalmente applicabili. Manager a loro agio in aziende in Lapponia come in Sud Africa, in Messico come in Kazakistan. Così facendo perpetuano un paradigma che vede l’organizzazione in generale, e l’azienda in particolare, separata e isolata dal contesto e dall’ambiente. Un lavoro, un ruolo e una vita ambiti da molti studenti e studentesse delle Business School di tutto il mondo. Un ruolo di prestigio e ben remunerato. Il personaggio di Ryan li rappresenta: sradicato e sempre in viaggio, non appartiene a nessun luogo e non è fedele a nessuna organizzazione, vive dentro una valigia.

Gli spaesati fanno un lavoro doppio: dare ordine alla vita (e il senso della vita) nel posto che si è lasciato e mettere in ordine la vita nel posto nuovo. Il termine spaesamento rimanda a quelle che Becker (1997) chiama disrupted lives: vite che seguono tre principali fasi: disruption, limbo, life reorganisation. Il luogo nuovo produce identità nuova. Chi vive disrupted lives fa esperienza di una lotta tra le due vite, una costante tensione che può o non può risolversi attraverso un’identità plurale.

Spaesamento è quando la norma e l’abituale sono interrotte e danno luogo a nuove possibilità. Spaesamenti sociali e spaesamenti individuali: voluti, scelti, decisi oppure subiti, forzati e inevitabili. La continuità alla propria esistenza viene garantita attraverso legami e nessi tra le “due sponde” della transizione. Gli eventi della nuova fase vengono reinterpretati in continuità, parte integrante di una tradizione anche narrativa.

L’esempio di spaesamento per antonomasia ci è raccontato da Ernesto De Martino (2019, pp. 480-481), qui si riconosce ciò che Bion (1973, p. 18) chiama «catastrofe». Per Bion il cambiamento è catastrofico quando «produce uno sconvolgimento dell’ordine o del sistema di cose; è catastrofico nel senso che è accompagnato da sensazioni di disastro nei partecipanti, è catastrofico nel senso che è improvviso e violento, in maniera quasi fisica».

La standardizzazione dei corsi di vita trova il suo punto di rottura nei processi di secolarizzazione, nella riduzione della dipendenza dalla famiglia e nella crescente enfasi sull’autorealizzazione, quali condizioni che aprono alla ricerca e alla sperimentazione di una più ampia varietà di traiettorie esistenziali (Brückner & Mayer 2005).

L’approccio del family life course complexity (Van Winkle 2019) aiuta a inquadrare il corso di vita familiare come meno convenzionale, consequenziale e prevedibile. I corsi di vita complessi sono socialmente strutturati dalle aspettative su ciascuna fase esistenziale, e ognuna di esse ha significati assegnati che danno senso agli eventi, e ai ruoli che li accompagnano. Caos e spaesamento si incontrano quando queste aspettative, per qualsiasi ragione, non sono soddisfatte. Questo produce una perdita del futuro. Il disordine deve essere superato, l’ordine restaurato.

Tra i processi richiamati come determinanti dei cambiamenti e della complessificazione dei, e nei, corsi di vita vi è, in particolare, la differenziazione, che si riferisce sia a un aumento delle transizioni nel corso di vita sia a una maggiore variabilità e, quindi, imprevedibilità all’interno di essi (ibidem). È possibile, allora, affermare che la complessità del corso di vita in generale, e familiare in particolare, risiede nelle transizioni da una fase ad un’ altra che non solo sono di più e richiedono più tempo per realizzarsi, ma avvengono anche secondo modalità più eterogenee e frammentate.

Emerge come la complessità del corso di vita familiare dipenda dall’eterogeneità delle traiettorie del corso di vita familiare che non sono più singole e distinte (formazione, lavoro, famiglia), ma una costellazione di situazioni, eventi e rappresentazioni verso e da cui transitano gli individui. Questa prospettiva può essere descritta come una “transizione nella transizione”: nella complessità del suo corso di vita familiare la persona si trova a compiere una doppia transizione: di luogo, ambiente, e ruolo, ma anche di ordine psicologico.

Transizione nella transizione” è un concetto che nasce dalla combinazione tra gli studi sociologici sul corso di vita e la psicologia topologica di Kurt Lewin (1936). Nell’approccio sociologico, “transizione” fa riferimento a cambiamenti di ruoli o di stati socialmente organizzati che la persona compie o attraversa. Il concetto di “transizione” nell’approccio lewiniano indica un “movimento” non solo fisico ma anche psicologico nel tempo e nello spazio nel proprio spazio di vita. Questo movimento, detto “locomozione” scaturisce da un bisogno e cambia le dinamiche all’interno dello spazio di vita. Il bisogno infatti determina i gradi di attrazione (spinta verso) o di repulsione (allontanamento da) verso uno stato del proprio spazio di vita e, quindi, genera una “spinta verso” organizzando in questo modo il comportamento.

Il Vocabolario Treccani dedica alla voce “sradicare” e ai suoi derivati molto più spazio che alla voce “spaesato”. Incluso uno “sradicatore”, un utensile agricolo, di varie forme e dimensioni, usato nella raccolta delle barbabietole da zucchero. Il verbo deriva dal latino exradīcare, composto da ex (fuori da) e radix-icis (radice). Nello specifico qui interessano due significati: a) allontanare, togliere qualcuno dal luogo o dall’ambiente in cui vive o a lungo ha vissuto, in cui si è radicato; e b) allontanarsi dal proprio luogo di origine, perdendo i legami con il relativo contesto familiare e sociale. Nel primo caso lo sradicare è forzato, nel secondo scelto. Lo sradicato è colui che è (o si è ) “allontanato dal proprio ambiente, o comunque in debole rapporto con questo, anche come sentimento di sofferenza (con lo stesso valore del francese déraciné). I sinonimi sono: divelto, eradicato, estirpato, disambientato, spaesato. I contrari: ambientato, inserito, radicato, a proprio agio.

Ryan, Jedlowski e Cerulo descrivono spaesati non sradicati e sradicati non spaesati. Come direbbe il principe danese a Orazio: “le scelte e i percorsi esistenziali sono più delle teorie che le spiegano”.

Riferimenti bibliografici
G. Becker, Disrupted Lives. How People Create Meaning in a Chaotic World, University of California Press, Berkeley 1997.
W. Bion, Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita., Armando editore, Roma 1973.
H. Brückner, K.U. Mayer, De-standardization of the life course: What It might mean? And if it means anything, whether it actually took place? In Macmillan R., a cura di, The structure of the life course: Standardized? individualized? differentiated? Elsevier, Londra 2005.
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2019.
K. Lewin, Principles of Topological Psychology, McGraw-Hill, New York 1936.
Z. Van Winkle Z, Family polices and family life course complexity across 20th century Europe, in “Journal of European Social Policy”, vol. 30, n. 3, 2019.

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