Mi chiamano Mimì,
ma il mio nome è Lucia.
La Bohème
Mimì tossisce, se ne va, non è già più lì. Ma i ritornelli della vita continuano;
Puccini non manca mai di sottolineare come la morte sia quotidiana. Ogni giorno qualcuno muore.
Catherine Clément
In questo assurdo 2020 la diva divina Lucia Bosè – come viene presentata in una biografia pubblicata in Spagna nel 2003 – avrebbe festeggiato un anniversario importante. E lo avrebbe fatto, certamente, con il consueto brio: la capigliatura blu svettante sul superbo profilo aquilino e i ventagli di rughe profonde a farle da corona intorno agli occhi, ancora bellissimi.
Ben settant’anni fa, infatti, il suo astro sorgeva nel firmamento del cinema italiano grazie alla doppia interpretazione in Non c’è pace tra gli ulivi e Cronaca di un amore (1950): Lucia è giovanissima, appena diciannove anni, ma le sue prime apparizioni hanno l’effetto esplosivo di una supernova. Perché di questo si tratta, di “apparizioni” (nel senso più stupefacente del termine) e Bosè è già una diva fatta e finita, sia nelle vesti della contadina ciociara di De Santis – in posa plastica, di spalle, fieramente arroccata sulle montagne come una creatura mitologica e dedita a sfidare la macchina da presa con lo sguardo – sia in quelle della femme fatale antonioniana Paola Molon Fontana, un’abbacinante venere cosmopolita in pelliccia bianca che fuoriesce dal Teatro alla Scala con il cipiglio imperioso e un po’ disincantato delle signore dall’alta società conquistando la ribalta di un palcoscenico immaginifico ben più ampio.
Due polarità estreme (natura versus società, mondo rurale versus civiltà urbana) eppure entrambe intimamente connesse alla doppiezza essenziale della “donna” Bosè, simbolo di una generazione “in transito”, quella sopravvissuta alla guerra e pronta ad affrontare un epocale morphing evolutivo, emancipandosi dal peso ignobile della miseria, dell’invisibilità, della discriminazione, e acquisendo un proprio distinto rilievo nella società del boom. Una schiera variopinta di aliene, mutanti, ultracorpi, fin troppo maggiorate per essere vere e, allo stesso tempo, umanamente fedeli alla dimensione ordinaria dell’esistenza.
Lucia è il riflesso metamorfico di quel femminile, una giovane pioniera inciampata quasi per caso nella celebrità grazie alla sua bellezza fuori dal comune. Luchino Visconti non fa in tempo a scovarla dietro il bancone di una pasticceria di Milano, impegnata a incartare marron glacé, che immediatamente viene eletta Miss Italia a Stresa nel 1947 (insieme a lei concorrono al titolo sconosciute illustri come Gina Lollobrigida, Gianna Maria Canale, Eleonora Rossi Drago). È indubbiamente diversa dalle altre: il suo bikini fatto in casa racconta una storia universale di stenti e privazioni che tutti aspettano di poter riscrivere; il suo aspetto patito, astratto ed essenziale, è abbozzato con l’inchiostro fisiognomico della modernità. E così dalla periferia contadina di Milano, questa dimessa Cenerentola si ritrova catapultata tra le pagine della Fiaba per eccellenza, del Sogno, restando un po’ sospesa, come tutte le grandi dive, tra realtà e finzione, tra persona e personaggio. La sua lunga carriera si divide in due ere fotogeniche: il pre e il post Dominguin.
Fino al 1955, anno in cui convola a nozze con il più celebre torero di Spagna, Lucia non si risparmia, collezionando una serie di ruoli molto significativi nel cinema popolare di quegli anni – tra i tanti ricordiamo quello della sartina-mannequin di Le ragazze di Piazza di Spagna (Emmer, 1952). In seguito, sceglie di limitare l’attività di attrice – a suo dire, senza rimpianti – per dedicarsi alla famiglia (tre figli, un divorzio e le conseguenze del caso), alle amenità della vita mondana (i più grandi intellettuali d’Europa sono suoi amici) e alla spiritualità (una passione conclamata per gli angeli). Lavora con Maselli, Buñuel, Cocteau, i fratelli Taviani, Fellini, Bolognini, Cavani, Duras, Rosi, Özpetek e Faenza, ma è, senza dubbio, Michelangelo Antonioni l’autore che ne ha fatalmente plasmato il mito, radicando la sua parabola divistica nel terreno fertile del melodramma.
Nella visione (estraniata) mèlo-modernista del regista di Ferrara (e nell’omonimo film del 1953), Lucia è un’inquieta e pallida signora senza camelie, l’ombra silenziosa di illustri progenitrici letterarie, teatrali e cinematografiche (da Marie Duplessis a Violetta Valery, da Margherita Gauthier a Greta Garbo), ma anche il riflesso perturbante del sistema cinematografico italiano dell’epoca. Nella disfatta umana e artistica dell’attrice Clara Manni – una commessa senza talento prestata al cinema e costretta a interpretare sempre lo stesso ruolo in film scadenti come Addio signora, La donna senza destino, Le mille e una donna – è confinato il mistero di un femminile potentissimo e multiforme, che transita da un’identità all’altra alla ricerca di forme di riconoscimento mai definitive o totalizzanti.
Lucia è stata tutto questo, nella vita e sul grande schermo, in positivo e in negativo: la contadina, la commessa, la miss, la modella, la maggiorata, l’attrice, la fidanzatina, la moglie, l’amante, la musa, la mecenate, l’eroina sempiterna di un melodramma rigenerato. Senza camelie, forse, ma in sé fragile come una camelia (un fiore di serra, candido e ricco di petali, ma privo di profumo e, quindi, “indossabile” dalla tisica media della narrativa ottocentesca). Fino ai venticinque anni, Bosè ha combattuto con un apparato respiratorio fiaccato da infreddature, polmoniti e, infine, da una grave tubercolosi: «Per quanto cercassi di dissimulare il male, il risultato finale era che nell’aspetto somigliavo alla Mimì della Bohème», si legge nella sua biografia, rafforzando i termini dell’aderenza melodrammatica tra la Lucia carnale e le figure femminili interpretate negli anni – non a caso, i mélo antonioniani sono stati fatti confluire in un’ideale vena pucciniana dell’immaginario popolare.
Nel finale, seguendo le note a margine di un beffardo copione, il male sottile è tornato – ripresentandosi in una terrificante versione contemporanea rispetto alla quale ci sentiamo tutti personaggi di un film globale (Coronavirus o semplice polmonite, resta comunque fortissima la suggestione, al di là di qualsiasi conferma o smentita da parte dei familiari) –, e la signora senza camelie se n’è andata, proprio come il personaggio di Mimì – che sappiamo da Puccini, Illica e Giacosa chiamarsi in realtà “Lucia” –, la gaia ricamatrice-fioraia che con la sua bella compagnia allieta la vita di Rodolfo (il poeta narciso), facendo sbocciare la poesia dal suo cervello. Sopravvissuta al gelo dell’inverno, Mimì-Lucia muore nel quarto atto, da qualche parte sul far della primavera, quando nessuno è solo ed è più facile dirsi addio. Il suo mistero le sopravvivrà in eterno.
Riferimenti bibliografici
A. Aranguren, Lucia Bosé. Diva, divina, Planeta Singular, Barcellona, 2003.
S. Busni, La voce delle donne. Le sconosciute del melodramma da Galatea a Lucia Bosè, Edizioni Fondazione Ente dello spettacolo, Roma 2018.
C. Clément, L’opera lirica o la disfatta delle donne, Marsilio, Venezia 1979.
B. Levantesi, “Lucia Bosè, metamorfosi di una donna”, in Cronaca di un amore – Un film di Michelangelo Antonioni. Quando un’opera prima è già un capolavoro, a cura di T. Kezich, A. Levantesi, Lindau, Torino 2004.
C. Viviani, Madonne aux deux visage. Lyrism et double dans le mélo populaire italien, in “Positif”, n. 436 (giugno 1997).
Lucia Bosè, Milano 1931-Segovia 2020.