ricordo-di-emanuele-severino

Filosofo e pensatore audace, le cui parole di misurato oratore sono state sempre frutto di una ricerca incessante, di una messa in questione radicale del presente e di uno strenuo confronto con la tradizione e con la storia della metafisica. Artefice di una provocazione filosofica in grado di disturbare le sensibilità del postmodernismo. Ma non solo. «Affamato disperatamente di verità», ha guardato negli occhi il mito della morte di Dio non riducendola a mero relativismo e ha discusso il dominio del divenire, della temporalità e della storicità dell’esperienza umana. Questo è stato Emanuele Severino.

I suoi poderosi lavori gli sono valsi, per motivi diversi, gli apprezzamenti di Heidegger, cui inviò da giovanissimo la propria tesi di laurea, ma anche l’esilio dalla Cattolica di Milano, seguito al processo davanti alla Congregazione per la dottrina della fede e le critiche dal mondo della scienza. Proprio di quest’ultima più tardi disse che è una forma potente di fede capace più della fede di trasformare il mondo. Aveva iniziato a 16 anni scrivendo Pensieri per un’Antifilosofia e ci lascia a 91 anni con la sensazione di aver dato vita a una ricca produzione e a un pensiero che non è stato messo fino in fondo alla prova, non ancora del tutto scoperto e metabolizzato in quella singolare specificità che ne fa un unicum nel panorama filosofico italiano. Nel tentativo di restituirne un ricordo limpido, tornano le parole che egli ha personalmente speso sul ricordo, di cui scriveva: «Appare all’interno della manifestazione del mondo; sì che il concentrare su di esso la scrittura è una separazione ancora più profonda, che sfigura il volto del ricordato». Ma la sua produzione filosofica gli vale quella immortalità che ha sempre sostenuto di poter attribuire agli esistenti, sfidando l’ovvietà dell’affermazione del divenire degli enti.

Prova a scardinare l’ovvio Severino. Come quando mostra la densità della parola sbiadita nelle traduzioni correnti e restituisce il significato del termine filosofia alla «cura, all’attenzione per ciò che è chiaro, luminoso» e non banalmente all’amore per la sapienza, e restituisce il senso del thaumàzein − da cui essa origina − non alla meraviglia ma a un angosciato terrore per la vita e per la morte. Essa non nasce corrivamente dalla meraviglia di un intellettuale tranquillo nel proprio laboratorio culturale in un’atmosfera rarefatta di quiete, ma da esperienze radicali che segnano il modo in cui ciascuno di noi vive o pensa. Per questo non la vede rassegnata a un ruolo di ancella della tecnica. La civiltà della tecnica è esplosione della follia che identifica il nulla e l’essere ma è anche «il tempo in cui i popoli si interrogheranno sul senso della sicurezza della loro felicità» che sarà una felicità senza verità e su questo punto andrà riconvocato il pensiero. È una civiltà che, ripristinando il mito, cioè la volontà che le cose siano, lascia esplodere il dubbio che esplose anche quando nacque la filosofia: «Non si tratta di rassicurare il mortale ma di mostrare la verità del destino».

Sapeva che la superficialità del nostro tempo ha ragioni profonde. Oggi si vuole produrre l’intelligenza artificiale ma ignorando che «l’intelligenza naturale è artificiale»: sottolineò riportandoci al significato del poiein (come pro-duzione) del Convivio platonico. Un Platone che egli rovesciò, rifugiandosi nella fortezza parmenidea. Si chiedeva se siamo sicuri di essere solo vita intelligente, vita per dominare il mondo o se alle spalle di ciò che crediamo di essere non ci sia qualcosa di più decisivo e lo faceva in continuo dialogo con la grande tradizione del pensiero europeo, passando per Nietzsche e per un Heidegger che capovolse e in cui non smise di trovare ispirazione.

Denunciò la restrizione tecnico-razionale della nostra libertà, il rischio della dittatura della ragione scientifica che pensa principalmente all’incremento della potenza. Definì la tecnica “sistema di sottosistemi” ma sostenne che non è oggi la tecnica a dominare (e a dominarci) ma l’economia capitalista, vero e proprio “sistema della potenza” che si serve della tecnica. Lo stato di smarrimento e decadenza in cui siamo gettati ha radici in quell’atto in cui rinunciamo a dire alla tecnica che non può fare tutto ciò che è in grado di fare. La tecnica destinata al dominio è infatti proprio quella che, avendo come scopo l’aumento indefinito della potenza, si serve dell’economia e può servirsi anche dell’economia capitalistica. Vedeva proprio in questa tecnica l’anima violenta dell’Occidente che mette a rischio forme di vita sociali, politiche e religiose. L’origine della globalizzazione sarebbe radicata proprio in questa tecnica, intesa come sistema di sottosistemi, che ha come scopo l’incremento all’infinito della stessa capacità di realizzare scopi.

Un Occidente che è il luogo per eccellenza in cui la verità è stata travisata, un Occidente che è una struttura che culmina in quel paradiso della tecnica che coincide col tramonto dell’Europa, della democrazia e del capitalismo, il luogo dell’errore e dell’errare. Un Occidente che ha tradito se stesso, direbbe Jacques Ellul (i due sono  meno distanti di quanto si creda) al quale Severino dedica un capitolo del suo Macigni e spirito di gravità. Di contro a ciò pone, non la speranza, come avrebbe voluto il pensatore di Bordeaux, ma la Gioia come luogo in cui le contraddizioni si sciolgono, quel luogo che è ciò che noi siamo: il sopraggiungere degli eterni. C’è qualcosa di più potente del divino, qualcosa sopra a Dio: ogni cosa è eterna e noi «siamo re che si credono mendicanti». Perché la verità appare, splende sempre ma «non ogni uomo è una testimonianza». Senz’altro il suo pensiero, spesso discutibile e controverso, lo è stato per la storia del pensiero.

Riferimenti bibliografici
E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979.
Id., Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, Brescia 2009.
Id., Macigni e spirito di gravità. Riflessioni sullo stato attuale del mondo, Rizzoli, Milano 2010.

Emanuele Severino, Brescia 1929 – Brescia 2020.

Share