La scomparsa di Carla Fracci mi ha turbata molto, per ragioni in cui i ricordi di infanzia si confondono con l’archivio e la percezione individuale della danza con la sua storia. Nata e vissuta per diciannove anni a Porto Cervo, ero una delle allora circa trecento anime che nutrivano la comunità dei “residenti”. Uno dei pochi luoghi più o meno pubblici che rimanevano aperti tutto l’anno era il Cervo Tennis Club. Lì, all’età di otto anni, ho iniziato a frequentare il corso di danza di Erica. Di origine sudafricana, Erica aveva all’epoca più di cinquant’anni e aveva vissuto in moltissime parti del mondo, calcato le scene di numerosi teatri europei e consumato la propria formazione e carriera di danzatrice principalmente a Londra, dove era infine diventata insegnante.

L’iniziazione all’ascolto passava per l’immaginario fiabesco dei libretti di un repertorio fra cui troneggiavano Lo schiaccianoci e Il lago dei cigni. L’introduzione al movimento e al gesto si avvaleva soprattutto delle figure di animali, secondo una gerarchia al cui apice c’erano i cigni, materia da avanzate; subito prima, l’uccellino e la farfalla. I discorsi sugli effetti coercitivi del balletto sui corpi dei bambini che, ogni tanto, sentivo fare da parenti o amici dei miei genitori mi scandalizzavano. Coglievo razionalmente le ragioni del controllo maniacale e continuo che Erica ci richiedeva di fare sulla posizione di piedi, ginocchia, spalle, mento, dita e, allo stesso tempo ne provavo costantemente gli effetti sul mio corpo. Il fatto di capirle e testarle mi faceva sentire un’iniziata. Era come se acquisissi sempre più segreti per costruire un corpo in grado di muoversi da sé, le cui parti acquisivano autonomia e in un certo senso vita, come gli animali e i giocattoli dei racconti che imparavo ad associare alla musica.

Il culto per Carla Fracci l’aveva inaugurato la mia insegnante, che ce ne parlava con venerazione e, siccome io veneravo Erica, l’étoile milanese era come un’entità superiore e quasi inimmaginabile. Lo coltivavo come potevo: imparavo a memoria le poche registrazioni in videocassetta che ci scambiavamo io e le mie compagne, cercavo di intercettare il suo nome nei discorsi degli adulti, ne cercavo il nome nei giornali letti in famiglia e soprattutto dal parrucchiere, che per me era l’unico luogo in cui il tempo passava ancora più lento che ai matrimoni. La tortura dell’attesa era alleviata solo da una nutrita pila di riviste vagamente in relazione con il mondo dello spettacolo, in cui cercavo come un’ossessa un vago riferimento alla dea.

Le apparizioni televisive erano rare, e dovevo accontentarmi soprattutto di surrogati, che trovavo soprattutto nelle coreografie di Fantastico. Il mio sguardo sacrale verso la danza aveva assunto la forma triviale di un amore profondo per Heather Parisi e Alessandra Martinez e un’antipatia altrettanto viscerale per Lorella Cuccarini, divenuta odio profondo quando con mio grande disappunto rimase l’unica delle tre a calcare le scene del varietà inventato da Enzo Trapani. Il sorriso smisurato e enigmatico di Heather Parisi ai miei occhi intensificava la magia delle sue spaccate acrobatiche e di passi e gesti fulminei che non lasciavano niente al caso. Quel sorriso invece di avvicinarla la rendeva infinitamente lontana, come un prisma da cui dipanavano Barbie e il gatto del Cheshire, la smorfia di un giullare di pezza animato per incantesimo e l’espressione di compiacimento di un’eroina della Marvel. Al polo opposto, il sorriso di Lorella Cuccarini aggravava la disapprovazione che già mi suscitava una danza che mi sembrava una versione annacquata e inferiore dell’altra, e che la faceva assomigliare a una qualunque giovane adulta, al limite molto bella.

Fu Erica a portarci a Sassari, nel 1986, a vederla danzare nel Romeo e Giulietta di Prokofiev inscenato al Palazzetto dello Sport. Lessi molti anni dopo che la scelta degli organizzatori di rinunciare al Teatro Verdi a favore della prosaica struttura sportiva era stata dettata dalla maggiore capienza, e che l’artista se ne era detta felice. Io invece non lo ero per niente. Per me l’evento era indissociabile dall’immagine di un luogo magnificente, in cui si incrociavano i teatri all’italiana letti o visti alla televisione e le sfarzose sale abitate dall’altra divinità dell’epoca: Romy Schneider. Sissi era prediletta perché aveva capelli lunghissimi, apparteneva in egual misura al mondo dei castelli e a quello dei boschi, e soprattutto nella trilogia si danzava di continuo. Ricordo il senso di tortura ai matrimoni lunghissimi a cui a volte ero costretta ad andare, e il disprezzo con cui guardavo gli adulti che si agitavano sulle note della musica pop in voga quegli anni. Se solo sapessero ballare il valzer, correre e volteggiare disegnando cerchi, creare tunnel e correrci dentro, pensavo.

Vedere Carla Fracci sul ring del Palasport, con costumi e scenografia minimali, era come vedere Romy Schneider in tailleur mentre balla il twist: un affronto, uno spreco e un colpo al cuore. Decisi che l’avrei rivista dal vivo solo in un teatro vero, e non Romeo e Giulietta ma il Lago dei cigni. Nel 1989 Erica perse la vita nell’incendio che attraversò San Pantaleo e uccise altre dodici persone. Per me e le mie compagne fu peggio di un lutto familiare, e la mia esperienza diretta con il balletto si concluse. Tornai alla danza quando mi trasferii a Bologna per frequentare l’università, ma da tutt’altra porta. Fra i miei nuovi idoli – Louise Lecavalier, Erna Ómarsdóttir, Carlotta Ikeda – Carla Fracci non aveva un vero e proprio posto. Ha sempre gravitato alla periferia dei miei interessi e dei miei pensieri sulla danza, scissa fra un caro ricordo del passato e un’inquietudine invece presentissima, come se proprio in quella non appartenenza alla “danza contemporanea”, in senso estetico come sociale e politico, ci fosse qualcosa che ancora mi riguardava e forse, penso oggi, ci riguarda tutti. Dopo l’incidente estetico del 1986 non l’ho mai più vista dal vivo, ma nel 2014, per vie traverse, la incontrai di nuovo, via video e ne La morte del cigno.

All’epoca stavo scrivendo un saggio su Invisible Piece (2011), un’opera di Cristina Rizzo che prende le mosse da un frammento delle riprese che immortalano Anna Pavlova sul palco del Bol’šoj, nel 1925, mentre interpreta il balletto scritto per lei da Mikhail Fokine. Ho iniziato a rincorrerne la miriade di interpretazioni e versioni successive, e presto mi sono imbattuta in quella di Fracci. La coreografia è identica, ma i due cigni non potrebbero essere più diversi. Il gioco sincopato di forze che dissolve letteralmente la figura tremula di Anna Pavlova trova la resistenza di un corpo pieno e mai sfigurato, che abita lo spazio denso dei gravi con un agio che l’agonia del personaggio non occulta mai del tutto. Impossibile stabilire se stia raccontando un trapasso o giocando al cigno. Avrei giurato di vedere fra gli spasmi contenuti di quel viso un sorriso impercettibile ma impossibile da negare del tutto, l’ombra di un’espressione di malcelato piacere di danzare e un accenno di risata verso il dramma romantico.

Ho riguardato o guardato per la prima volta molti altri video, e ogni volta a un certo punto emergeva lo stesso sorriso: nella Giselle accanto a Erik Bruhn o Rudolf Nureyev, in Medea, nella Giulietta che mi aveva lasciato fredda da giovanissima, più tardi ne La bambola di Kokoschka. Nel personaggio pubblico quel sorriso diventa più o meno pronunciato senza cambiare mai davvero di qualità o natura. Una medesima resistenza, impercettibile ma inflessibile, alle inerzie della gravità e dello spettacolo accomuna le espressioni che regala al pubblico di Telemike (1987) e dello sceneggiato Rai Verdi (1982), echeggia nel cammeo nell’album Studentessi di Elio e le Storie Tese (2008), le illumina il viso quando racconta ai giornalisti del padre tranviere, che conduceva la linea numero 1 con cui ha raggiunto per la prima volta la Scala.

Parimenti agli antipodi dell’antico cliché della divina e di quello recente della soubrette, Carla Fracci si definisce sistematicamente una fiera e fortunata lavoratrice dello spettacolo. Una delle cose che ho trovato più commoventi, leggendo le dichiarazioni rilasciate durante la lunga carriera che i media hanno rilanciato a seguito della scomparsa, è che ringrazia di continuo “il mio lavoro” e il fatto di averne uno, faticoso ma bellissimo. Il mondo a cui appartiene Carla Fracci è un mondo territoriale, in cui la danza è un lavoro, i tram portano dai campi a uno dei teatri più celebri d’Europa, la cultura di massa e in particolare la televisione costituiscono il sensorio condiviso nel quale, nel bene e nel male, si intessono insieme una cultura visiva, un’estetica sociale e un immaginario geografico in comune. E per quanto opaco e spietato, quel luogo all’epoca è ancora un’interfaccia porosa fra città e campagna, centri e periferie, templi sacri dell’arte e sottoculture urbane. Quel mondo non c’è più, e da qualche giorno si è spento anche uno dei suoi sorrisi.

Carla Fracci – Milano 1936, Milano 2021.

Share