C’è un dialogo tra padre e figlia in un caffè, interpretati rispettivamente da Dirk Bogarde e Jane Birkin. I due si riavvicinano dopo la malattia del padre. C’è un continuo tentativo di ricercare quella complicità perduta o che non c’è mai stata. Nei loro volti, dietro l’apparente serenità, sono presenti tutte le tracce di un dolore mai rimosso. Si tratta di Daddy Nostalgie (1990) uno dei più bei film del regista. Il cinema di Bertrand Tavernier, il cineasta francese scomparso lo scorso 25 marzo a 79 anni, ha dato il meglio ogni volta che ha toccato le corde più intime nei rapporti familiari. Era già accaduto nel suo primo lungometraggio, L’orologiaio di Saint-Paul (1974), felice adattamento del romanzo di Georges Simenon in cui la figura interpretata da Philippe Noiret (che nel cinema di Tavernier ha avuto un impatto simile a quello di Robert De Niro per Martin Scorsese) entra in crisi dopo che il figlio è stato arrestato e accusato di omicidio. Lo sguardo è discreto in Daddy Nostalgie mentre in L’orologiaio di Saint-Paul è a metà tra l’osservazione della vita di provincia e le tracce di un doloroso polar. Forse questi due film, così diversi ma anche così simili, possono essere indicativi per costruire l’identikit di un cineasta che ha spaziato tra i generi e gli stili più diversi del cinema francese.
Era nato nel 1941, ma poteva appartenere anche alla generazione precedente, quella dei critici-registi della Nouvelle Vague di cui ne ha rimesso in discussione le certezze, soprattutto quelle sul “cinema della qualità francese”, riabilitando come critico cinematografico (aveva scritto sia per i “Cahiers du cinéma” sia per “Positif”) registi come Claude Autant-Lara, Jean Grémillon, René Clément, Christian-Jacque e Jean Delannoy. Ma in realtà lo aveva fatto anche come cineasta. Conosceva benissimo quel cinema popolare e anche i suoi meccanismi produttivi. In tutte le sue escursioni storiche, da Che la festa cominci… (1975) che rievoca la vita libertina della corte di Philippe d’Orléans al più recente La Princesse de Montpensier (2010) ambientato nel XVI secolo e rispettivamente tratti dai romanzi di Alexandre Dumas e di M.me de Lafayette, c’è tutta quella nostalgia per quelle ricostruzioni in cui la dimensione letteraria conviveva con un cinema dichiaratamente già superato ma in cui voleva cogliere il respiro politico dell’epoca. Ogni tanto Tavernier aveva bisogno di quei salti nel vuoto.
Il sospetto di “restaurazione” era sempre dietro l’angolo, nascosto comunque dall’innegabile mestiere e soprattutto dalla sua capacità di dirigere gli attori. Ogni tanto si liberava dalla struttura del film di genere e trasformava il cappa e spada (anche grazie a Riccardo Freda) in una magica danza funerea come in Eloise, la figlia di D’Artagnan (1994) in cui si è riattivato ancora una volta il legame padre-figlia attraverso le figure di Sophie Marceau e Philippe Noiret. Ma c’è ancora un altro elemento con cui Tavernier ha cercato di riallacciare il rapporto con quella tradizione del cinema francese poi bruscamente troncata dalla Nouvelle Vague e cioè il rapporto con Jean Aurenche e Pierre Bost, gli sceneggiatori bersagliati da François Truffaut e che hanno lavorato con lui nei suoi primi film – oltre a L’orologiaio di Saint-Paul, anche di Il giudice e l’assassino (1976) e il solo Aurenche di Che la festa cominci… – e a cui ha reso omaggio in Laissez-passer (2001), dichiarato tentativo di rivalutare un certo modo di fare cinema.
Un’altra grande passione di Tavernier è stato il cinema statunitense. C’è un suo volume, bellissimo, di interviste fatte ad alcuni dei più importanti registi americani, Amis américains, nel quale ci sono interviste, tra gli altri, a John Ford, William Wellman, Elia Kazan, Jacques Tourneur, John Huston, Robert Altman e, nell’edizione aggiornata, anche a Quentin Tarantino, Joe Dante e Alexander Payne. E del resto la sua passione è stata evidente anche con il suo cineclub Nickelodéon, fondato assieme a tre amici che, come ha sottolineato Jean-Pierre Jancolas nella sua biografia contenuta nel Dizionario dei registi del cinema mondiale a cura di Gian Piero Brunetta (Einaudi, 2007), «è diventato leggenda». È un cinema che ama profondamente. Forse in una sua vita parallela sarebbe voluto vivere proprio nella Hollywood degli anni ’40 e ’50 dove si giravano noir e western, tra i suoi generi prediletti. E proprio in Il giudice e l’assassino, ispirato al caso criminale di Joseph Vaucher e dedicato ad Abraham Polonski, i monti delle Ardèche sono filmati con la stessa passione con cui John Ford mostrava la Monument Valley.
Ha omaggiato più che il cinema bellico, quello degli effetti umani ed emotivi della guerra in una delle sue opere più moderne (La vita e nient’altro, 1989), ha guardato al noir adattando il romanzo Pop. 1280 di Jim Thompson (Colpo di spugna, 1982), ha anticipato un Truman Show funereo in un fantasy spettrale attraverso le figure di un operatore televisivo e una scrittrice malata terminale interpretati da Harvey Keitel e Romy Schneider (La morte in diretta, 1980), è partito con Robert Parrish in film on the road alle radici del blues (Mississippi Blues, 1984) e ha adattato l’omonimo romanzo di James Lee Burke in In the Electric Mist – L’occhio del ciclone (2009), un film completamente fuori le sue corde in cui un detective dà la caccia a un killer. Tra le vette del suo cinema c’è Round Midnight – A mezzanotte circa (1986), girato con lo spirito del biopic americano ma anche con quella malinconia e fascinazione della Parigi fine anni ’50 che fa da sfondo all’amicizia tra un sassofonista di talento alcolizzato e un pubblicitario squattrinato.
Si è anche reinventato, mettendosi in gioco con uno stile fisico, con la macchina da presa attaccata ai personaggi nel poliziesco Legge 627 (1992) e in L’esca (1995), Orso d’oro a Berlino, che mette in luce, più della storia, tutta la banalità del male. E nei suoi risultati migliori, al di là del rigore morale, si è rimesso in gioco con tutto il suo sdegno umano e politico attraverso la figura di un preside di una scuola moderna in un paesino colpito pesantemente dalla disoccupazione in Ricomincia da oggi (1999). Tavernier è un cineasta che ha parlato prima alla testa. I suoi risultati migliori ci sono stati quando si è immedesimato con le storie che ha raccontato. Ma tutti i suoi film, sia i migliori sia i peggiori, sono legati a lui. Nel 2015, quando ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia, ha infatti sottolineato: “Nella mia carriera ho fatto soltanto i film che volevo. Senza compromessi”.
Bertrand Tavernier – Lione 1941, Sainte-Maxime 2021.