Provincia americana profonda alla fine degli anni Venti, durante la Grande Depressione. Il giovane criminale Clyde Barrow ha appena cominciato a lasciare una scia di sangue lungo le strade dell’Oklahoma accompagnandosi a Bonnie Parker e a un altro compare incontrato in una stazione di servizio. La compagnia si stabilisce in un bungalow, dove viene raggiunta dal fratello di Clyde, Buck Barrow, e da sua moglie. La scena è collocata a mezz’ora dall’inizio di Gangster Story (1967) di Arthur Penn. Clyde è interpretato da Warren Beatty, Buck da Gene Hackman. Quando l’automobile di Buck arriva nella spianata su cui affacciano i bungalow, Clyde non sta nella pelle, comincia a saltare e si getta fra le braccia del fratello; Buck riceve quest’ondata di affetto fraterno e lo ripaga a modo proprio, i due si mettono a lottare come due pugili, scattando e mostrando i pugni, a un certo punto Buck colpisce Clyde con il cappello, come per allontanare un insetto. 

Nell’intensa fisicità di questa scena c’è la forza espressiva di una nuova generazione di attori, per i quali l’overacting ha un preciso intento: «Le azioni fisiche» sottolinea Cristina Jandelli, «diventano tic nervosi, pericolosi indizi di un imminente tracollo psichico». Tutta la performance attoriale, nel film di Arthur Penn, è il sintomo di un’irrequietezza generazionale in cui il pubblico si riconosce; è ciò che fa scrivere a Pauline Kael, per ben tre volte nella stessa recensione, che il film è «contemporary in feeling». Però c’è una differenza tra i corpi inquieti, nervosi di Beatty e Faye Dunaway, e l’azione portata da Gene Hackman. Nella scena sopracitata c’è quel colpetto con il cappello che dice tutto, un gesto da fratello maggiore, ma anche un gesto rivelatore rispetto alla capacità attoriale di lavorare con gli oggetti e di provare a tenere a bada l’istinto. Hackman interpreta allora lo strapotere del corpo e la deriva della mente in un modo del tutto peculiare, come vediamo di lì a poco in Abbandonati nello spazio (1969) di John Sturges, la storia di una missione spaziale che non va in nessun posto, e proprio per questo trasmette al più impulsivo dei suoi astronauti (Hackman) un profondo senso di angoscia. Il suo stile è costruito sulla tensione tra energia trattenuta e rilasciata

Andiamo a vedere Il braccio violento della legge (1971) di William Friedkin, uno dei primi classici hackmaniani: nei panni del detective Popeye, entra in scena vestito da Babbo Natale e usa un campanaccio per dare l’allarme all’altro agente durante un’operazione antidroga, per poi lanciarsi in una corsa a perdifiato con costume e barba posticcia; quando raggiunge il sospettato in fuga, lo prende a botte in un’esplosione di violenza che stupisce persino il collega (“Basta! Non ammazzarlo, basta!”). Il personaggio di Popeye è molto caratterizzato da oggetti di scena (ancora un cappello) e, in generale, dall’esuberanza del senso estetico, esemplificato dalla fissazione per gli stivali femminili.

In questa fase storica, la scena che forse riassume e restituisce il senso del fare cinema di Gene Hackman è la celebre conclusione del film La conversazione (1974) di Francis Ford Coppola, in cui il mago delle intercettazioni Harry Caul si scopre a sua volta intercettato, e smonta la propria abitazione alla ricerca di dispositivi di controllo installati a sua insaputa, per poi mettersi a suonare il sax tra le macerie. Il film avrebbe potuto raccontare una storia convenzionale, come suggerisce Geoff King, consistente nella «trasformazione di un individuo spinoso, maldestro e passivo in un protagonista attivo, un eroe»; ma invece ha fatto proprio il contrario. Ecco, probabilmente più di ogni altro attore fra quelli emersi nell’epoca della New Hollywood, Gene Hackman incarna la destituzione del progetto, la caduta dell’eroe come agente, la sua sopravvivenza come carattere in preda a circostanze ed emozioni non sempre controllabili

La scena paradigmatica di questa modalità sopravvivente è in Potere assoluto (1997) di Clint Eastwood. Nascosto nella nicchia che si apre nella camera da letto di un’elegante villa suburbana, un ladro osserva il presidente degli Stati Uniti compiere una violenza sessuale ai danni di un’amante che poi viene uccisa dalle guardie del corpo. Il ladro è Eastwood, l’emblema delle possibilità residuali del cinema classico, della sua sostanziale astoricità ed eternabilità; il presidente stupratore è Hackman, che qui rappresenta l’approdo delle esplosioni di violenza a stento trattenute nei decenni passati, l’esito distruttivo cui perviene il soggetto espulso dalla sfera pragmatica. A entrare in crisi e inabissarsi, sotto gli occhi di ghiaccio dell’attore-regista, è un intero immaginario, basti pensare alla citazione esplicita da Il delitto perfetto (1954) di Alfred Hitchcock.

L’altro lato della sopravvivenza del personaggio come carattere è quello ironico proposto da I Tenenbaum (2001) di Wes Anderson, quando il patriarca educa i nipoti alla violazione delle regole, dal passare col rosso al semaforo al piccolo furto in un negozio di alimentari: se Hackman può offrire anche questa versione sorridente e inoffensiva del fallimento del soggetto come agente è perché ha donato letteralmente il corpo alla rappresentazione di quel malessere.

La linea ereditaria del personaggio hackmaniano però si era già chiusa con l’ipertopico Nemico pubblico (1998) di Tony Scott, in cui la conversazione coppoliana si espande nell’ambiente della comunicazione digitale, e Hackman interpreta un agente in pensione, ciò che effettivamente è, vale a dire un soggetto ritiratosi dall’azione, chiamato di nuovo in causa per aiutare un giovane avvocato. Compiuta la missione, l’agente si eclissa per sempre, contattando il suo “allievo” da una località esotica, un buen retiro per l’antieroe della New Hollywood, il reattivo, ossessionato, burbero, scattante Gene Hackman.

Riferimenti bibliografici

C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Marsilio, Venezia 2007.
P. Kael, Bonnie and Clyde, in “New Yorker”, 13 ottobre 1967.
G. King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era dei blockbuster, Einaudi, Torino 2004.

Gene Hackman, San Bernardino, 30 gennaio 1930 – Santa Fe, 18 febbraio 2025.

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