Una macchina da presa instabile segue i movimenti di una donna – Xin Zhilei, vincitrice della Coppa Volpi come miglior attrice – all’interno di un ospedale. Lei sembra trovarsi lì per un’ecografia, ma i dialoghi sono ridotti al minimo: in assenza di parole esplicative, è necessario cercare indizi all’interno delle immagini per tentare di scoprire ciò che è accaduto. Subito dopo, la donna è costretta a piegarsi in due sulle scale per il forte dolore che l’affligge. L’inquadratura la mostra attraverso due linee diagonali che delimitano l’immagine: questa chiusura interna alla composizione segnala la prigione simbolica in cui Meiyun è rinchiusa.
La prima ora del film di Cai Shangjun, regista cinese della sesta generazione e già vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia alla 68ª edizione della Mostra di Venezia, non rivela molto sulla vita di questa donna, ma si concentra invece sullo svelamento degli inganni che lei stessa ha messo in atto. Allo stesso tempo, Meiyun sembra avere una consapevolezza del quadro di realtà osservato dagli spettatori, e con questa consapevolezza si schermisce, proteggendosi dal loro sguardo. È ciò che accade nelle dirette sui social, in cui cerca di vendere abiti di scarsa qualità, scegliendo cosa mostrare e come per raggiungere il suo scopo. Ma la macchina da presa continua a perseguitarla, e attraverso soggettive che inquadrano mani e braccia pronte a invadere l’immagine per avvicinarsi a lei, lo spettatore è interpellato a fare altrettanto. In modo più radicale, la donna chiude una porta davanti alla camera mentre assiste un malato in ospedale che non riesce ad andare in bagno da solo. Chiudendo la porta, esclude ogni tentativo di indugiare su ciò che è accaduto. Con questo gesto Cai Shangjun sembra affermare che questa è una storia che ha bisogno di tempo, che va inizialmente guardata con la coda dell’occhio, prestando attenzione, perché qualcosa pulsa dietro l’immagine.
C’è una difficoltà iniziale nel rinvenire la trama, che si insinua lentamente tra i silenzi dei personaggi. Meiyun insiste nel portare a casa il malato incontrato per caso in ospedale e nel prendersi cura di lui. Ma l’uomo, chiamato Baoshu (Zhang Songwen), con la stessa ostinazione la respinge. Entrambi vivono nella miseria, ma lui afferma di aver pagato un prezzo più alto, ricordando alla donna il debito che lei ha nei suoi confronti. Accolgono il loro incontro come un segno di destino tragico. C’è un dolore che li lega e che non può essere pronunciato, e proprio per questo si manifesta fisicamente: i dolori della gravidanza di Meiyun, segno di vita, risuonano con quelli del cancro allo stomaco di Baoshu, che preannunciano la morte.
Meiyun nasconde la gravidanza: il padre del bambino è un uomo sposato che le ha chiesto di abortire per mantenere segreta la relazione. Non può confidarlo neppure a Baoshu, perché significherebbe sottolineare ancora di più la distanza tra le loro fortune. Sette anni prima lei gli ha rovinato la vita, lasciandolo prendersi la colpa di un incidente stradale commesso da lei. Dopo aver perso tutto, lui vorrebbe ora abbandonarsi alla morte. Sarà dunque Meiyun a costringerlo a mangiare, quando l’uomo rinuncia. La violenza di lei (uno schiaffo) riceve una risposta ancor più crudele (lo stupro). In questa catena di dolore la vita resiste: ce lo ricorda Meiyun divorando un pasto con voracità.
Solo quando Baoshu, in un parco, le racconta della sofferenza che lo accompagna, Meiyun confessa di essere incinta. Lo schermo viene allora trafitto: tornati a casa, i due cercano di chiudere una finestra per escludere il mondo esterno, ma una ventata irrompe nei vetri, incrinando il potere schermante delle immagini, la prigione che confinava entrambi.
Attraverso questo dramma intimo, Cai Shangjun delinea con finezza l’immagine di un Paese che, proprio come i protagonisti del film, aspira a proiettarsi nel futuro ma resta prigioniero del passato. Nel finale i due personaggi sembrano arrendersi al proprio destino: perché lei possa vivere deve accettare la morte di lui, e perché lui possa morire deve affidarsi al tentativo di vita di lei. Ma la vita che germogliava nel corpo della donna si spegne, bloccando l’unica possibilità di redenzione. Privata di un futuro in grado di riscattare il passato, la donna uccide l’uomo: affondare il coltello nel suo ventre diventa l’unico gesto possibile per sciogliere la colpa delle scelte che, anni prima, li avevano già condannati. In filigrana, la vicenda lascia emergere le tensioni irrisolte di un intero Paese.
The Sun Rises on Us All. Regia: Cai Shangjun; sceneggiatura: Cai Shangjun, Nianjin Han; fotografia: Kim Hyun-seok; montaggio: Matthieu Laclau, Yann-Shan Tsai; interpreti: Xin Zhilei, Zhang Songwen, Feng Shaofeng; produzione: Guangzhou Mint Pictures, Guangzhou Zizai Media; origine: Cina; durata: 131′; anno: 2025.