“Sono io il protagonista del film. Quindi non voglio deluderti. Tutto quello che voglio dirti è che sono in tutte le immagini di questo film. In ogni fotogramma di questo film. L’unica cosa è che devi saperle leggere, queste immagini. Quindi per favore: leggile e saprai tutto di me”. Con queste parole il regista e poeta lituano Jonas Mekas apre il sesto capitolo di As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000). Parole che giungono in aiuto nel riassumere il nucleo di un cinema che potremmo definire della memoria. Della memoria umana. Ma ancor prima della memoria personale. Un cinema che, tramite la forma del videodiario, ritorna alla sua funzione essenziale di strumento al servizio dell’uomo. Il mezzo viene sfruttato per i propri interessi emotivi, interiori, personali, ponendo al centro del fine il suo stesso autore. Non un dialogo, quanto piuttosto un monologo sussurrato, che parte dal regista e raggiunge il pubblico con i toni di una confessione, di una confidenza. La necessità di far conoscere cosa si cela non solo dietro la macchina da presa, ma dietro quegli occhi che hanno osservato e deciso di filmare certe immagini. Un uomo, con ricordi.

Non serve la presenza fisica della persona per (ri)evocarne la memoria. Basta una vecchia fotografia di Janet Leigh in un hotel o in cui fila di persone attendono l’ultimo film con Stallone. La ripresa di un vecchio cinema in disuso o di fiumi di gente che festeggiano il carnevale. Così come Alina Marazzi in Un’ora sola ti vorrei (2002) ricostruisce un ritratto della madre per poter parlare (anche) di sé stessa, per raggiungere quella figura sempre più lontana e imprimerne la memoria, Kleber Mendonça Filho con Retratos Fantasmas (2023) decide di “sfruttare” come simulacro la sua città d’origine. Montaggio di riprese ex novo, scene dei propri film, fotografie e materiale di repertorio, ricostruiscono un ritratto sfaccettato di Recife, dei suoi luoghi, abitanti, eventi e passioni. Un’indagine iniziata già da tempo, poco più che ventenne, con il primo cortometraggio Travelling (1991) e proseguita lungo tutta la sua filmografia, fino a questo momento.

Un’identificazione autore-città che pone il primo come vero centro verso cui convergono gli elementi della città. La casa di sua madre in cui realizzò le prime pellicole, l’appartamento in cui realizzò il primo lungometraggio e in cui tutt’ora abita, le stanze del Cine Art Palácio in cui si innamorò di quella luce sullo schermo proiettata da Alexandre Moura. Sovrapposizione talmente forte da farsi strumento per una comprensione retroattiva, conferendo identità unitaria alla sua filmografia. Retratos Fantasmas diventa allora una guida che ci invita a conoscere il suo autore e di conseguenza le sottotrame nascoste di un cinema che appare così intimo, personale: “Facendo questo film ho finalmente messo insieme i pezzi”. Si comprende l’origine del rumoroso cane dei vicini in Il suono intorno (2012), dell’invasione di termini in Aquarius (2016) o il perché dell’insistenza – sorta di leitmotiv fin da Chaveiro (1995) – sulla psicosi della sicurezza. Elemento, quest’ultimo, che si lega all’importanza della dimensione comunitaria, del senso di appartenenza, minacciata e colpita dall’esterno, dall’estraneo, da ciò che sta al di fuori della comunità.

Mendonça sembra però in parte cedere ad un cinema al servizio del pubblico. Sceglie di agire sulla memoria tramite le capacità manipolatorie del cinema, intrecciando realtà e finzione, ricostruzione e riproduzione. Non soltanto una guida, ma anche un gioco con lo spettatore, come già provato nel mockumentary Recife Frio (2009). “I film di finzione sono i migliori documentari” e per l’appunto, quasi in un gioco ad incastri, subentrano gli elementi del reenactment. La voce over del regista ricorda quando Maeva Jinkings andò a casa sua e si sedette nello stesso posto in cui si trova in Il suono intorno. Il montaggio alterna scene del vecchio film a nuove riprese che mostrano quanto raccontato. Un rumore in lontananza li attira sul balcone: è un’invasione domestica al piano di sotto. Il furto di una bombola del gas. Siamo portati a credere alla veridicità di quelle immagini, alla cattura fortuita di quel momento. Ma negli ultimi istanti Mendonça ammette: è tutto finto, riproduzione di quanto accaduto in precedenza. La realtà attuale ricostruisce il film passato. Il film attuale riproduce la realtà passata. Tocca fidarci di ciò che viene ripreso? Di ciò che ci viene mostrato?

Proprio in questo intreccio tra opera di finzione e del reale compare un presunto spettro. Forma incomprensibile, protagonista di una fotografia in bianco e nero che presto lascerà il passo a figure ben più spettrali. Il tema del fantasma irrompe come metafora delle presenze che abitano i ricordi, ma anche dell’infanzia che fu e della vita passata, della giovinezza e dei (bei) momenti vissuti. I cinema ripresi diventano luoghi “che non esistono più che proiettano film sui fantasmi”. L’accostamento al titolo di Ghost – Fantasma (1990) denuncia la dualità: non solo fantasmi di finzione, ma anche fantasmi quali corpi, volti, appartenenti ad un’altra epoca. Volti ormai lontani. Le immagini di archivio affollate di gente si succedono a riprese attuali di quegli stessi stabili ormai disabitati. Spogli, apparentemente abbandonati, ciò che resta è il segno del tempo che scorre. Sembra quasi poter vedere ancora le forme delle persone, nonostante l’occhio della camera non possa (forse) più catturarle. Impressionare quei volti li rende immortali, fissati sulla materia, delle tracce concrete di persone che risiedono in un passato sempre più distante, sempre più vago ricordo. Ritratti di fantasmi, per l’appunto, che abiteranno Recife in eterno. A noi è chiesto solo di non dimenticare. Non dimenticare ciò che è stato.

Il valore che Mendonça conferisce alla macchina cinematografica diventa chiaro, giustificando la grande passione che nutre nei confronti del cinema, sdoppiata – ancora una volta – nel fervente sentimento cinefilo di Recife. E il film non può che concludersi in questo modo: con una messa in scena, più che dichiarata, esibita. Il vero protagonista è in campo a dialogare con un uomo, un tassista, che ha la capacità di trasformarsi in fantasma. La sua immagine può sparire, farsi invisibile, ma la sua presenza permane a guidare la macchina, a rispondere alle domande. Non si sa più se sia un’opera sulla memoria o nella memoria. Siamo giunti alla fine e quindi al presente, alla mente di Mendonça. Così il tassista scompare e riappare, come a ricordarci che, chissà, forse siamo già tutti fantasmi dal momento in cui veniamo ripresi.

Retratos Fantasmas. Regia: Kleber Mendonça Filho; sceneggiatura: Kleber Mendonça Filho; fotografia: Pedro Sotero, Kleber Mendonça Filho; montaggio: Matheus Farias; interpreti: Kleber Mendonça Filho, Rubens Santos; produzione: CinemaScópio, Vitrine Filmes; origine: Brasile; durata: 93’; anno: 2023.

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