Il potente fascino delle narrazioni post-apocalittiche risiede indubbiamente nella fervida e ricca immaginazione riversata nell’allestimento di catastrofi totali: sinfonie del lutto che descrivono la sorprendente fragilità delle sicurezze umane e la barbarie della sopravvivenza. La fiction post-apocalittica articola, dunque, un immaginario in grado di toccare i nervi scoperti di ansietà e paure che attraversano il presente, esibendole in scenari del collasso monumentale.

In questa cornice, sono soprattutto le narrazioni che fantasticano su contagi inarrestabili e micidiali a intrecciare un rapporto problematico con l’immagine e il concetto stesso di umano, ricorrendo a un campionario di figure dell’apocalisse, composto da zombi, infetti, e dalle loro molteplici varianti e mutazioni, con cui viene offerto un correlativo materico alle minacce invisibile di virus, batteri e altri microrganismi patogeni (Simpson 2014). Lungo tali direttrici si intravedono, però, anche i rischi di una saturazione dell’immaginario, condotto spesso sul rimaneggiamento ricorsivo di idee consolidate e l’accumulo di repertori conosciuti, a volte organizzati scivolosamente a ridosso del “già visto” (Luckhurst 2015).

The Last of Us si inserisce, quindi, in un filone molto battuto e strettamente codificato in schemi survivalisti e trame del contagio, riuscendo a ravvivare la serialità post-apocalittica soprattutto dopo la conclusione del lunghissimo arco narrativo di The Walking Dead, durato ben dodici anni (2010-2022). La serie di Craig Mazin non si propone di rielaborare il genere, quanto di capitalizzarne la grammatica di base, al fine di intensificare la drammatizzazione della sopravvivenza umana. Allora, per inquadrare The Last of Us all’interno del genere post-apocalittico, può risultare utile intrecciare le maglie di un confronto con alcuni testi del medesimo filone, con cui la serie condivide diversi elementi, quali il ricorso al modello narrativo del family drama, la spettacolarizzazione del contagio, il processo di adattamento seriale partendo da un medium considerato marginale nello storytelling, quale il videogame.

Come in The Walking Dead, anche qui ci si rivolge al modello del family drama per perlustrare l’inferno della sopravvivenza, e stilare un bilancio universale tra il prima e il dopo dell’evento apocalittico. Se nel mondo disfatto dagli zombi descritto da Robert Kirkman, la narrazione che conduce alla fondazione di un nuovo ordine umano trova il suo innesco nella caparbietà con cui il protagonista, Rick Grimes, ritrova la propria famiglia, in The Last of Us, il medesimo modello non viene impiegato per celebrare il ricongiungimento, bensì per rintracciare piccoli gesti, legami affettivi e tortuose elaborazioni del lutto attorno a cui si ricompone un’umanità residuale.

La relazione tra family drama e ossessione per la fine del mondo configura un puntuale dispositivo narrativo per esplorare l’ecosistema dei sentimenti in un mondo collassato. Tale binomio si ritrova inscritto all’interno di diverse narrazioni seminali: il senso di solitudine assoluta di Robert Morgan descritto in L’ultimo uomo della terra (1964) – primo adattamento del romanzo survivalista Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson – trova la sua amplificazione nella rievocazione nostalgica della moglie morta per il contagio; la decostruzione del nucleo familiare della classe media bianca degli anni sessanta diviene il baricentro della serrata critica alla società americana tracciata in La notte dei morti viventi (1968), primo film di George Romero sul living dead.

La dialettica tra smembramento e  ricomposizione dell’unità familiare incide significativamente anche la più recente fiction post-apocalittica: si pensi, ad esempio, al raggelante strappo degli affettivi familiari nel nervoso incipit di 28 settimane dopo (2007) di J.C. Fresnadillo, al crepuscolare rapporto tra un padre e la figlia destinata a trasformarsi in zombie in Contagious – Epidemia mortale (2015) di Henry Hobson, ai tentativi di integrazione familiare tramite una capillare medicalizzazione degli infetti nella brillante serie britannica In the Flesh (2013-2014) di Dominic Mitchell, e anche alla contraddittoria complicità tra padre e figlia nel deludente Army of the Dead (2021) di Zack Snyder. E all’interno di questa ampia cornice, The Last of Us si pone l’obiettivo primario di setacciare i sentimenti che sopravvivono all’umano, senza scivolare nel patetico, o nell’esaltazione di una violenza protettiva – che, ad esempio, caratterizzano The Walking Dead – rivolgendosi, piuttosto, alla ricerca di una dimensione patemica

La serie consolida l’intelaiatura del genere, presentando un mondo socialmente diviso tra la dittatura militare del FEDRA, con i suoi nuclei di potere dislocati sul territorio (le “zone di quarantena”), e la resistenza organizzata dalle Luci; una precisa eziologia del contagio tutta giocata sulla verosimiglianza di una reale possibilità (la mutazione patogena di un fungo, il cordyceps, avviene a seguito del riscaldamento della superficie terrestre e trova la sua diffusione tramite i canali del commercio su scala globale) e una ferina mutazione del corpo umano infettato in un veicolo del contagio (dai furiosi “runner” e “clicker” sino ai temibili “bloater”).

Il dramma familiare si trova inscritto direttamente nei vissuti dei due protagonisti, Joel ed Ellie, e trova il suo sviluppo lungo il viaggio che intraprendono per la ricerca di una cura. Il destino Joel è disegnato da lutti e separazioni: la morte di Sarah, la giovane figlia, durante il montare del caos della pandemia; la successiva separazione dal fratello, Tommy; il sacrificio della compagna, Tess, per salvargli la vita. Ellie, invece, è una giovane orfana cresciuta nelle zone di quarantena, che porta con sé il fuoco di una miracolosa immunità legata, però, alla morte della madre e a quella sua migliore amica, Riley.

In questa cornice, in cui perdita e speranza reclamano il medesimo spazio simbolico, prende forma un meccanismo empatico costruito sul crescendo del sentimento di protezione reciproca, dolce e crudele, con cui entrambi i protagonisti si illudono di colmare gli inalienabili vuoti che li hanno segnati. Così, il topos del viaggio solitario on the road lungo le terre desolate viene investito da una sacralità che rievoca il legame tra padre e figlio al centro del romanzo La strada (2006) di Cormac McCarthy, e si raccorda anche alla violenza furiosa che ha epicizzato alcuni momenti di The Walking Dead. Il viaggio diviene anche il pretesto per una perlustrazione profonda dell’ambiguità umana, sospesa tra una follia metodica (la dittatura di Kathleen a Kansas City e il cannibalismo della comunità guidata da David) e le folgorazioni di un’innocenza incontaminata (si vedano le puntate dedicate ai legami tra Henry e Sam, Frank e Bill, Riley ed Ellie), restituita da corollario di microstorie organizzato sulla frammentazione e lo slittamento temporale di flashback e digressioni

Ora, il respiro di ciò che rimane di un ecosistema umano si infiltra in un habitat soffocato ormai dalla diffusione capillare del cordyceps. Se in natura questo fungo colpisce alcuni insetti, qui, invece, ridisegna il corpo umano restituendolo come una orribile metastasi fungina, cieca e aggressiva, andando così ad arricchire il ferale catalogo del rabid zombie: l’infetto furioso e micidiale, divenuto iconico nelle apocalissi evocate da film come 28 giorni dopo di Danny Boyle (2002), e World War Z (2013) di Marc Forster.

Il sovvertimento radicale dell’anatomia umana trova, inoltre, il suo corrispettivo in un ambiente colonizzato da escrescenze e protuberanze micotiche: dal corpo degli infetti si estende il fitto sistema vegetativo del fungo che traccia nell’ambiente inquietanti affreschi post-organici, in cui ciò che rimane delle membra umane viene sciolto lungo le superfici delle case e delle strade. Questa claustrofobica continuità spaziale tra regno micotico e umano viene intensificata dall’uso pervasivo del filtro verde pallido costantemente irradiato nelle inquadrature: un’aberrazione cromatica che spettacolarizza la marcescenza tanto dei tessuti umani quanto di quelli sociali. 

Un ultimo aspetto del raffronto sin qui tracciato riguarda il processo di adattamento del videogioco nella forma della serialità televisiva. Si tratta di un adattamento alquanto fedele, quasi filologico, di un videogame già caratterizzato in partenza da un deciso taglio narrativo e uno stile filmico (non a caso, il gameplay ha raggiunto numerose visualizzazioni sulla rete). Il rapporto tra testo originario e testo adattato si articola lungo una dialettica di continuità e discontinuità: un’aderenza forte al plot accompagnato da un reticolo di variazioni e intensificazioni narrative, come quella relativa alla rielaborazione dei cinematic inseriti nel testo videoludico.

L’obiettivo di questo processo si rivolge a risaltare l’intreccio psicologico della storia, riducendo consapevolmente le azioni salienti di scontro tra umani e infetti. Inoltre, l’adattamento seriale si dispone lungo un fitto interscambio tra materia videoludica e televisiva, ribadito, ad esempio, dalla presenza sullo schermo, spesso in ruoli minori, degli attori scritturati per il doppiaggio dei personaggi del videogioco. Ecco, così come in The Walking Dead l’adattamento del comic novel in serie tv ha legittimato qualitativamente il testo di partenza (Lino 2020), la versione televisiva di The Last of Us concorre alla legittimazione del medium videoludico come strumento narrativo strutturato, complesso ed empatico, e contribuisce anche ad ampliare lo spettro crossmediale dell’apocalisse e delle fascinazioni che raccoglie attorno a sé.

Riferimenti bibliografici
G. Frezza, a cura di, Endoapocalisse. The Walking Dead, l’immaginario digitale, il postumano, Areablu, Salerno 2015.
M. Lino, Lo storyworld di The Walking Dead. Adattamento, transcodifiche digitali ed espansioni transmediali, in Oltre l’adattamento? Narrazioni espanse: intermedialità, transmedialità, virtualità, a cura di, M. Fusillo, M. Lino, et al., il Mulino, Bologna 2020.
Id., Post-Apocalypse Now. Cinema e serialità zombie come pre-mediazione del contagio, in Spazi chiusi. Prigioni, manicomi, confinamenti, a cura di F. Fiorentino, M. Guglielmi, “Between”, VIII.22, 2021.
R. Luckhurst, Zombies. A Cultural History, Reaktion Books, London 2015.
P.L. Simpson, The Zombie Apocalypse Is Upon Us! Homeland Insecurity, in “We’Re All Infected”. Essays on AMC’s The Walking Dead and the Fate of the Human, a cura di, D. Keetley, McFarland, Jefferson 2014.

The Last of Us. Ideatori: Craig Mazin, Neil Druckmann; interpreti: Pedro Pascal, Bella Ramsey; produzione: The Mighty Mint, Word Games, PlayStation Productions, Naughty Dog, Sony Pictures Television; distribuzione: HBO; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2023-in produzione. 

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