Paul McCartney scrisse Yesterday, uno dei brani più rappresentativi della popular music del XX secolo, nel gennaio del 1964, in una stanza d’albergo a Parigi. Fu registrata tra il 14 e il 17 giugno del 1965 ad Abbey Road, con il solo autore presente in studio (alla voce e alla chitarra acustica), accompagnato da un quartetto d’archi. La traccia fu pubblicata sull’album Help! nell’agosto del 1965, dunque si può dire che dalla genesi alla distribuzione, Yesterday di fatto era stata scartata da ben due album dei Beatles (A Hard Day’s Night e Beatles for Sale). Lo stesso McCartney era solito suonare la canzone, di tanto in tanto, in presenza di amici, chiedendo loro se per caso non si trattasse di un prestito inconscio da qualche famosa melodia del passato: “È di qualcun altro o l’ho scritta proprio io?”, domandava. Su questa circostanza variamente documentata (se ne parla nell’autobiografia di George Martin e anche nel fondamentale saggio di Ian MacDonald) si basa una delle scene più evocative del film di Danny Boyle, che prende il titolo (e non solo) da quella che è considerata la canzone con il maggior numero di cover pubblicate, oltre settecento. In senso lato, anche questo film è un tentativo di adattamento del capolavoro di McCartney.

Le canzoni rappresentano spesso microcosmi narrativi, popolati da personaggi che hanno la forza della letteratura e del cinema: dalla grande epica civile di Bob Dylan alle storie periferiche di Bruce Springsteen, innumerevoli sono i protagonisti di quelle sceneggiature da tre minuti che sono le canzoni. Sono sceneggiature di film (quasi) mai girati, con qualche eccezione: Across the Universe (2007) di Julie Taymor è stato un tentativo interessante di mettere in scena le canzoni dei Beatles, e la band stessa ha prodotto negli anni sessanta alcuni esempi fondamentali di musica visualizzata (su tutti Yellow Submarine e Magical Mystery Tour).

Yesterday di Danny Boyle si fonda su un’idea drammaturgica di grande impatto: cosa accadrebbe se una sola persona al mondo si ricordasse dell’esistenza dei Beatles? È un’ipotesi dal potenziale narrativo enorme perché di fatto genera uno scarto epistemologico tra un personaggio dalle competenze enciclopediche ordinarie e un mondo che improvvisamente si scopre, per sottrazione, straordinario. Il protagonista di Yesterday è un musicista senza alcuna fama e senza particolare talento; un cantautore che si esibisce per pochi amici e che ha una sola estimatrice, l’amica di lunga data che lo adora dai tempi del liceo e gli fa da manager. L’incidente scatenante, prestito di genere dalla fantascienza modale, è un blackout che inspiegabilmente priva l’umanità di una parte piccolissima, eppure fondamentale, di storia del XX secolo: i Beatles, appunto (e altri oggetti più o meno connessi, dagli Oasis alla Coca-Cola).

D’altra parte, la stessa Yesterday rischiò di non vedere la luce e di rimanere nel cassetto, pur esemplificando meglio di ogni altra composizione beatlesiana l’ambivalenza del rapporto dei Fab Four con la nostalgia. Lo ha spiegato molto bene il filosofo Massimo Donà: come ogni forma artistica importante e decisiva, la musica dei Beatles ha sempre schivato il presente (per dirla con Deleuze) collocandosi prima e dopo, alla vigilia e all’indomani, nel passato e nel futuro. La dimensione spaziale del loro mondo è stata molto interiorizzata, per esempio quando Lennon scrive che la mente è il posto in cui gli piace ritirarsi quando si sente triste; o quando Harrison sostiene che senza uscire dalla porta puoi sapere tutte le cose del mondo.

Anche la temporalità beatlesiana risulta fortemente soggettivizzata e polarizzata tra passato e futuro, se si pensa alle canzoni-cristallo di Paul McCartney come When I’m Sixty Four, in cui l’autore si immagina all’età di sessantaquattro anni, dunque nel futuro, ma in uno stile musicale da music hall degli anni venti, una reminiscenza del passato. O come Yesterday, che tematizza questo andirivieni tra il pensiero dell’ora e dell’allora, facendone un manifesto: “I believe in yesterday”.

La sceneggiatura di Richard Curtis, artefice del potente exploit della Working Title negli anni novanta (Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill, Il diario di Bridget Jones), è un intelligente dispositivo ludico, nel senso che cerca di sollecitare sia il protagonista a ricordare e ricostruire le progressioni armoniche e le liriche dei Beatles con esattezza, sia lo spettatore a riconoscere i riferimenti beatlesiani in superficie e in profondità, in una tessitura testuale fitta ma in tono lieve. La struttura drammaturgica in sé è molto semplice, dall’ipotesi iniziale si procede verso una complicazione che però è differente da ciò che ci si aspetta: gli oppositori si rivelano alleati, e gli alleati oppositori, fino a quando il protagonista non ha una chiara visione della strada da prendere, favorito da un incontro con un John Lennon che in questo universo alternativo non ha trovato la morte all’ingresso del Dakota Building di New York.

Se la scrittura di Curtis costruisce un congegno efficace, la regia di Danny Boyle lo arricchisce senz’altro, almeno per quanto concerne il lavoro sul protagonista: con un budget praticamente prosciugato dai diritti di ben 17 brani dei Beatles, Boyle punta su un attore poco noto di famiglia indiana, Himesh Patel, lontanissimo da qualsiasi imitazione o identificazione con i Fab Four. La performance è costantemente tenuta sottotono, cercando un profilo da buon incassatore: molto efficaci in tal senso le gag con la famiglia e con il gruppo di amici. Funziona, in questa distribuzione di forze impari, il confronto con la star del pop Ed Sheeran nei panni di se stesso: il songwriter, apparso anche in un episodio di Game of Thrones, prende sul serio questa commedia e il gioco che vi si svolge, rendendo un sentito omaggio alla musica dei Beatles. Di fronte ai brani eseguiti dall’impostore di questa realtà modale in cui nessuno ha mai ascoltato Yesterday, Ed Sheeran si inchina a colui che crede esserne l’autore, e afferma con estrema umiltà: “Tu sei Mozart, io sono Salieri”.

La messa in scena invece gira pericolosamente a vuoto in tutta la costruzione della relazione sentimentale tra il protagonista e l’amica di sempre, con soluzioni impacciate e inopinati cambi di tono. Del resto ha destato un certo clamore la recente intervista in cui il regista di Trainspotting confessa la propria difficoltà con i personaggi femminili, e Yesterday è evidentemente la prova che Boyle purtroppo non mente. Fa eccezione la sequenza dedicata a una celebre eroina beatlesiana, Eleanor Rigby, colei che raccoglie il riso nella chiesa, un videoclip innescato dalla memoria del testo, e un po’ come accade nel film Across the Universe  vorremmo vedere anche la ragazza che scappa di casa con un motociclista (She’s Leaving Home), la prostituta che staziona davanti ai parcometri (Lovely Rita), e poi Michelle, Lady Madonna, Prudence e le altre.

Riferimenti bibliografici
M. Donà, La filosofia dei Beatles, Mimesis, Milano-Udine 2018.
I. MacDonald, The Beatles. L’opera completa, Mondadori, Milano 1997.
G. Salvatore, I primi 4 secondi di Revolver. La cultura pop degli anni Sessanta e la crisi della canzone, EDT, Torino 2016.

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