“Sei nel cinema?”, chiede il goffo sceneggiatore alle prime armi, Barton Fink, a una bellissima sconosciuta in bikini, chiaramente fuori dalla sua portata, in quella che si rivela essere la battuta finale nel film omonimo dei fratelli Coen del 1991. Barton è seduto dietro di lei, la osserva mentre è sdraiata sulla spiaggia e guarda verso il mare, riproducendo la stessa posa dell’immagine che decorava la parete della sua stanza d’hotel. Questa scena finale e circolare è ripresa e riflessa all’inizio di Reflection in a Dead Diamond − in Concorso alla scorsa Berlinale −, dove un uomo anziano, in completo elegante, guarda con bramosia una giovane donna distesa sulla riva e rivolta verso l’acqua: un’immagine-eco, citazionale e intertestuale, tra sguardi maschili e femminili cambiati di segno.

Come quello dei Coen, l’ultimo film di Hélène Cattet e Bruno Forzani è uno psicodramma metacinematografico ambientato nel mondo del cinema di genere e della sua stessa produzione, e che, avviandosi dove Barton Fink si chiudeva, porta in sé un forte senso di fine. John − il cui nome è Diman, John Diman − si trova al crepuscolo della vita e, in un lussuoso hotel della Costa Azzurra, non affronta solo la propria mortalità all’orizzonte, ma anche una proustiana ricerca del tempo perduto. Ciò che risveglia i ricordi dell’uomo, però, non è una madeleine, bensì un anello al capezzolo della donna sulla sabbia. Quell’oggetto scintillante al sole lo riporta a un’altra fine: la tipica scena conclusiva di un film alla James Bond, in cui il giovane superagente John ha ottenuto sia la ragazza sia i diamanti e, completata la missione, si gode entrambi su uno yacht di lusso. I titoli di coda del film-nel-film, introdotti con le parole “Era riflesso in un diamante morto, fungono anche da titoli di testa del film: qui nulla finisce mai davvero, e anche il più morente dei generi può sempre generare un sequel, un reboot o un’allucinata vita ultraterrena.

I ricordi vaganti di John formano un caleidoscopio vertiginoso di associazioni libere e surreali, tratte dai cliché e dalle convenzioni – scritte di testa cartoonesche, giochi da casinò, incontri clandestini, assassini mascherati, gadget assurdi, sesso sadomaso e combattimenti spettacolari – non tanto dei film di 007, quanto degli infiniti cloni europei del genere spionistico apparsi sull’onda dell’idolo di Fleming. In tutto questo caos, traspare anche una sottile critica all’eroe macho, decostruzione del gentiluomo che tratta le donne come oggetti casuali e intercambiabili. Dopotutto, il protagonista non sta forse solo fuggendo dalla paura di essere diventato lui stesso un individuo identificabile con il suo personaggio ridicolmente stereotipato in un mondo dominato dalla cultura dei franchise prodotti in serie?

L’omaggio cinefilo si trasforma in riflessione sul cinema stesso: non più narrazione ma visione; non più racconto ma superficie. L’opera diventa così un triplice atto: sogno del passato, nostalgia per l’immagine perduta e analisi del linguaggio visivo. Reflection in a Dead Diamond fa al genere eurospy ciò che i registi hanno già fatto per altre forme di cinema consolidato: una discesa profonda nel linguaggio e nell’immaginario di genere, che va oltre il semplice pastiche postmoderno per diventare qualcosa di più astratto e artistico, persino essenziale, arricchito dal loro tipico gusto per il feticismo e la perversione visiva.

Tutti gli oggetti del film, attraverso la continua parcellizzazione dell’immagine e le trasformazioni stilistiche, assumono infatti implicazioni feticistiche, incarnando le asperità e le impurità del mondo e, soprattutto, le fratture psichiche di John. Questa accezione del feticcio supera la lettura freudiana che vede in esso una fantasia infantile di compromesso a cui il feticista (tipicamente maschio) con tenacia inconscia si aggrappa. La teoria psicoanalitica recente sostiene e come questa il film che i desideri feticistici agiscano da camuffamento simbolico per il conflitto preedipico: lo sdoppiamento dell’immagine corporea che si verifica quando il bambino si distingue dalla madre. Il feticcio è «una parte del corpo o un oggetto inanimato correlato come un capo d’abbigliamento o un accessorio [la tutina in latex, i gioielli] isolati dall’oggetto umano intero» (Stoller 1975, p. 14). E che funziona come «un nuovo corpo, […] una subliminale ed economica condensazione» (Greenacre 1953, p. 79) del corpo materno, che offre, specialmente attraverso la visione, il conforto illusorio dell’unione con la madre e, allo stesso tempo, il distacco e la disidentificazione da lei. Il feticismo serve a superare l’ansia da separazione (di John dal suo Ersezt bondiano) e di morte (del suo presente invecchiato), soddisfacendo un bisogno più profondo di quello sessuale, poiché è implicito in queste interpretazioni che il sessuale sia custode e medium (!) del Sé.

Inizialmente, John è affiancato da una collega e amante per proteggere un magnate del petrolio, figura ambigua che trasforma le proprie conquiste femminili in arte omicida, preferendo come arma letale il greggio alla vernice color goldfinger. John dà anche la caccia alla sua nemesi mascherata, Serpentik (interpretata da una moltitudine di attrici), probabile eco felliniana di tutte le donne che ha mai amato o affrontato, sebbene sembri combattuto tra il desiderio di farci sesso, ucciderla, farsi uccidere o diventare lei.

In mezzo alla tempesta di immagini divelte su sfondi psichedelici – molte delle quali mostrano parti smembrate di corpi femminili – il duo registico blocca il tempo della confusa narrazione ai giorni non binari e pre-femministi, dove l’immaginario sadico straborda. Picchiate, tagliate coi diamanti o dalle facce strappate − per rivelarne altre sotto, in stile Mission: Impossible −, le donne passano da feticci a simboli: una bocca femminile e un occhio incastonato di diamanti che, in modo onirico e surreale, appaiono ripetutamente nei luoghi più inaspettati.

L’inseguimento di Serpentik diventa una corsa a vuoto alla ricerca di senso, identità e risoluzione, in un film che si presenta come un labirinto sinestetico e vertiginoso, fatto di codici incrociati e realtà concorrenti. Nei ricordi di quest’uomo anziano sulla propria giovinezza perduta (e su un genere ormai superato), i desideri voyeuristici di John – feticizzati nel susseguirsi sfiancante di travestimenti, pedinamenti, sottomissione e bondage – si rivelano un desiderio di morte. John cerca disperatamente una fine, anche se questa viene ripetutamente rimandata da Serpentik, che, consapevole dei sequel e degli eterni ritorni, continua a dire “Non adesso”.

Così come la donna assume identità multiple, anche John è moltiplicato e mediato: non solo agente segreto operativo, ma anche figura pubblica riluttante e ricorrente eroe di una saga cinematografica e di una serie di fumetti neri – quei fumetti d’exploitation italiani per adulti, come Diabolik e Satanik, che hanno chiaramente lasciato il segno sul linguaggio visivo e narrativo del film. Tutti questi media invadono gradualmente i ricordi: le pagine dei fumetti scorrono e talvolta prendono il controllo dell’estetica del film, mentre il giovane John è visto ripetere più volte le stesse scene sui set cinematografici, e le immagini memoriali del vecchio John si rivelano semplici oggetti di scena, falsi.

Come Serpentik, anche il protagonista gioca una sciarada di maschere, doppie partite e finzioni sovrapposte che si sfogliano una dopo l’altra come le maschere della donna, e alla fine è difficile capire cosa – o chi – sia reale. I ricordi di John si attorcigliano, decostruendo il genere eurospy e svelandone lo sfarzoso artificio.

In un’altra scena, il giovane John è in una sala di proiezione e guarda un film che lo informa sui vari supercriminali da affrontare. Serpentik è il Nemico numero uno, ma c’è anche un uomo che lascia i cadaveri dei collezionisti d’arte in lugubri tableaux ispirati a quadri famosi (in un film dove ogni omicidio è estetizzato) e un altro, “forse il più pericoloso”, chiamato Kinetik, che ipnotizza le proprie vittime facendo credere loro di essere in un film. Alla fine, perduta qualsivoglia coordinata di realtà, non è chiaro se il John anziano sia caduto preda del potere maligno di Kinetik e di quello ipnotico del cinema – e quindi immagini ancora di essere stato/essere dentro un film ,  oppure se sia semplicemente un attore anziano e confuso che ricorda il proprio ruolo più famoso come se fosse stata la sua vera (segreta) identità, fantasticando che l’unica ammiratrice che ancora lo riconosce sia in realtà Serpentik tornata dall’aldilà.

In ogni caso, questo di Cattet e Forzani non è tanto un film di spionaggio, quanto il ricordo delirante e distorto di un immaginario collettivo. In questo disorientante gioco di specchi l’unica certezza è che, prima o poi, la fine arriverà – come sempre accade in un film, anche se una delle società di produzione coinvolte si chiama To Be Continued.

Riferimenti bibliografici
S. Freud, Feticismo, in Id., Opere. vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1978.
R. J. Stoller, Perversion: The Erotic Form of Hatred, Pantheon, New York 1975. 
G. J. Greenacre, Certain Relationships Between Fetishism and Faulty Development of the Body Image, in “The Psychoanalytic Study of the Child”, n. 8, 1953.

Reflection in a Dead Diamond. Regia: Hélène Cattet, Bruno Forzani; soggetto e sceneggiatura: Hélène Cattet, Bruno Forzani; montaggio: Bernard Beets; fotografia: Manuel Dacosse; scenografia: Laurie Colson; costumi: Axelle Le Dauphin; interpreti: Fabio Testi, Yannick Renier, Koen De Bouw, Maria de Medeiros, Thi Mai Nguyen, Céline Camara, Kézia Quental; produzione: Kozak Films, Les Films Fauves, Dandy Projects, Tobina Films, Savage Film, To Be Continued; distribuzione italiana: Lucky Red; origine: Belgio, Lussemburgo, Francia, Italia; durata: 87’; anno: 2025.

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