La faccia della Grande Infermiera è sempre calma, come se avesse fatto plasmare e dipingere una maschera per assumere l’aspetto che vuole. Fiduciosa, paziente e imperturbabile. Non più piccoli sussulti, soltanto quella faccia terribilmente gelida, un placido sorriso stampigliato nella plastica rossa; una fronte pura e liscia, senza una sola ruga a tradire debolezza o preoccupazione; occhi verdi, vacui, grandi, verniciati; verniciati con un’espressione che dice: posso aspettare, non è escluso che rimanga indietro di un metro, di quando in quando, ma posso aspettare ed essere paziente e calma e fiduciosa perché, lo so,
la sconfitta non esiste per me.
Ken Kesey
Nella classifica dei 50 migliori villains della storia del cinema, stilata dall’American Film Institute nel 2003, il personaggio di Miss Ratched, la perfida infermiera di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Forman, 1975) figura al quinto posto dopo “cattivi” del calibro di Hannibal Lecter, Norman Bates, Dart Fenner e la Strega dell’Ovest. Allora fu la semi-sconosciuta Louise Fletcher a interpretarne il ruolo, restituendo all’immaginario collettivo una perfetta effige di crudeltà, che le valse un premio Oscar e un posto speciale nei ricordi di innumerevoli generazioni indignate. Inconcepibile qualsiasi rigurgito di empatia nei confronti di quel donnone scialbo in divisa, calze e scarpe bianche — l’espressione austera orrendamente pietrificata sotto l’acconciatura demodé e il cappellino inamidato —, colpevole di aver stroncato la (sana) carica sovversiva del picchiatello McMurphy, un Jack Nicholson talmente enorme e in stato di grazia da offuscare ogni ragguardevole nemesi incontrata sulla scena.
A noi spettatori tradizionali bastava percepirla così, come una maschera repressiva dagli occhi di ghiaccio, un mero supporto bidimensionale votato alla messa in immagine di un racconto importante, al confine tra tragedia e metafora. Cosa si nascondesse dietro cotanta cattiveria non è mai interessato veramente a nessuno, forse in fondo nemmeno all’autore del romanzo originale, Ken Kesey. Ci ha pensato il prolifico Ryan Murphy — già creatore, tra le altre cose, di memorabili antologie seriali come American Horror Story (10 stagioni dal 2011 di cui una in produzione) e American Crime Story (3 stagioni dal 2016 di cui una in produzione) — a riprendere il personaggio negli otto episodi della serie Netflix Ratched, attraverso un’operazione che potrebbe essere riclassificata come una sorta di falso spin-off derivante da un ardito rimpasto transmediale.
La storia è ambientata tra il 1947 e il 1950, periodo in cui la misteriosa Mildred Ratched (Sarah Paulson) giunge in qualità di infermiera nella clinica psichiatrica di Lucia in California. Il suo arrivo ha a che fare con l’internamento di un giovane, Edmund Tolleson (Finn Wittrock), che ha ucciso barbaramente quattro preti. La donna pretende di essere assunta e comincia a tessere una sottilissima trama manipolatoria per raggiungere il suo scopo, coinvolgendo tutto il personale della clinica — in particolare, il direttore, Richard Hanover (Jon Jon Briones), fine studioso delle tecniche più avanguardistiche che consentono di toccare le menti dei pazienti più recalcitranti — e una serie di figure, apparentemente secondarie, che vi orbitano intorno. Il segreto di Ratched sembra, fin dal principio, essere legato a Tolleson e alla volontà di impedire che venga condannato alla pena capitale per gli orrendi crimini commessi. È in questa prima parte della serie che riconosciamo la villain, l’angelo della misericordia, la Grande Infermiera capace di compiere efferatezze per plasmare l’Interno a immagine di un Esterno dominato da una Cricca dispotica.
È qui che il cosiddetto nido diventa nuovamente visibile e che l’ambiente narrativo originario si ricompone: la malattia mentale, le infermiere, la corsia, il teatro anatomico, la somministrazione dei farmaci, il soffocamento, la lobotomia. A poco a poco però il pretesto si indebolisce e la storia prende tutt’altra strada, seguendo il filo rosso di un percorso memoriale traumatico: Miss Ratched perde lo strato più superficiale della sua asettica perfidia e prende corpo un personaggio nuovo, tridimensionale, più denso, in cui confluiscono un torbido passato di abusi, il senso di colpa legato a un abbandono tanto drastico quanto necessario, l’esperienza allucinata della guerra e una dimensione presente segnata da una rinnovata forma di compassione femminile e dall’amore. Come se Mildred smettesse di recitare la parte di Miss Ratched — nel pilota ci viene inequivocabilmente mostrata come un’attrice che si prepara a interpretare il ruolo, indossando un completo giallo senape trafugato ai Grandi Magazzini e facendo le prove davanti allo specchio, con un occhio alle dive fotografate sulle riviste che occupano la consolle — e abbandonasse gli scenari di genere per abbracciare una drammaturgia differente, la sua.
C’è da dire però che si tratta di un’autonomia solo apparente in quanto Ratched — ed è questo il punto di forza della serie nonché il grande inganno architettato dal diabolico Ryan Murphy — manifesta una sostanza meta-cinematografica a dir poco fagocitante: i riferimenti ai film e agli interpreti dell’epoca sono disseminati ovunque e, in generale, le atmosfere celebrano apertamente la suspense di Alfred Hitchcock nella sua totalità stilistica e ontologica (l’uso dei verdi e dei rossi, le musiche di Bernard Herrmann, evocato anche in alcuni suoi celebri temi extra-hitchcockiani, la presenza di topoi eclatanti come il motel, il trauma e la vertigine). È inoltre ravvisabile la presenza di una linea sotterranea più propriamente anni novanta, che solca quel particolare territorio orrorifico fatto di serial killer rinchiusi in celle di sicurezza poste alla fine di lunghi corridoi, di teste mozzate recapitate in scatole, di estenuanti migli da percorrere e di esecuzioni capitali spettacolarizzate.
Più che il medium in sé è forse l’americanità ad essere, ancora una volta, al centro del discorso, come se la serie si proponesse di ricomporre le spoglie narrative di un unico romanzesco (squisitamente americano), testandone le procedure immaginifiche basilari. Non a caso, quando l’infermiera ninfomane Dolly (Alice Englert), incaricata di portare il pasto a Tolleson, viene bloccata dalla guardia che tenta di avvertirla sulla pericolosità dell’uomo, la giovane risponde a tono:
Elettrizzante. Sarebbe un sabato sera divertente. Se vuoi puoi chiamare l’infermiera Bucket, sono certa che freme di sapere cosa ne pensi. Nel frattempo io seguirò le istruzioni che mi hanno dato e, se ti vengono in mente altre idee, perché non te le annoti? Magari scriverai il prossimo grande romanzo americano.
Non può mancare, da questo punto di vista, la venatura mèlo (nella sua declinazione hardboiled) che si dischiude inaspettatamente nella grazia dei world of women: sono, infatti, le donne a orchestrare il profilo drammatico della vicenda, riprogettando i propri assetti identitari all’interno di comunità armoniose (le infermiere della clinica) e siglando alleanze risolutive — inutile notare che la riuscita dell’operazione si deve a un cast femminile di prim’ordine (oltre alla protagonista Paulson, restano potentissime le performance delle comprimarie Judy Davis, Cynthia Nixon e Sharon Stone). Così come sembra costituire un ulteriore lascito melodrammatico il nome dato all’(anti)eroina Ratched (nome che non compare né nel romanzo di Kesey né nei credits del film di Forman, anche se viene pronunciato da Jack Nicholson in una scena): quel “Mildred” che fa eco a James L. Cain (Mildred Pierce, 1941) e al cinema degli anni quaranta, ma soprattutto al profilo fotogenico della diva Joan Crawford — interprete di Il romanzo di Mildred (Curtiz, 1945) —, altra mitologica villain (nelle cronache più che nell’arte) glorificata a suo tempo da Murphy in Feud (2017) e rievocata, ci piace pensare, attraverso alcuni look particolarmente iconici di Ratched-Paulson.
A conti fatti, dunque, la prima stagione della serie — ma già si parla di una seconda — non compie il miracolo postumo di una “riabilitazione” (tra l’altro, non richiesta), né tantomeno riesce a configurare un’anamnesi del male che possa essere ritenuta al fondo convincente: semplicemente, spariglia le carte — in maniera elegante e voluttuosa, mai disturbante —, riempiendo con le immagini del cinema un vuoto di senso, per certi versi, inaccettabile. Anche il finale sembra portare altrove. Il nido del cuculo è ancora lontanissimo. To be continued.
Riferimenti bibliografici
K. Kesei, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rizzoli, Milano 1976.
Ratched. Ideazione: Ryan Murphy, Evan Romansky; interpreti: Sarah Paulson, Finn Wittrock, Judi Davis, Sharon Stone, Cynthia Nixon, Jon Jon Briones, Charlie Carver; produzione: Ryan Murphy Productions, Fox 21 Television Studios, The Saul Zaentz Company; origine: USA; anno: 2020.