Una bambina vestita di bianco riassembla su dei fogli di carta frammenti di fotografie lacere e con le sue matite disegna intorno ai brandelli, colmando i vuoti con l’immaginazione, tentando di ricostruire un intero logorato dal tempo. Firouzeh Khosrovani, regista iraniana di cui la bambina è alter ego, riapre l’album della sua famiglia e, a partire da quelle fotografie, colma i vuoti con materiali audiovisivi di repertorio pubblici e privati (provenienti da archivi iraniani e ginevrini) e tenta di rimarginare le crepe del suo passato familiare. Dal cortocircuito tra personale e collettivo si plasma Radiograph of a family, film presentato nel concorso internazionale della prima edizione di UnArchive – Found Footage Fest, esempio toccante di un cinema che accogliendo il “noi” si rivela capace di tematizzare un “io” con garbo e limpidezza.
Benché fin dall’incipit le immagini del film sembrano capaci di dire “io” attraverso gli espedienti più espliciti e consueti del cinema autobiografico (Lejeune 1987), ovvero l’utilizzo di fotografie del passato che mostrano il soggetto e del voice over di raccordo ed esplicitazione linguistica della prima persona singolare, l’intera operazione di Khosrovani, che passa per l’archivio e la ricostruzione finzionale, si configura come una ricerca di quell’io. L’alternarsi di forze centripete e centrifughe, il cui vertice risulta la soggettività della regista, innesca un movimento che conduce l’indagine verso la genesi e il tormentato sviluppo del rapporto tra i genitori dell’autrice.
Laico, amante della cultura in ogni sua forma e cosmopolita, emigrato in Svizzera per condurre i suoi studi sulla radiologia il padre; pudica, sinceramente religiosa e profondamente legata al suo Iran la madre. Due monadi apparentemente lontane, anche solo a livello anagrafico, che si congiungono in un matrimonio alquanto bizzarro, quando, al fine di poterlo raggiungere a Ginevra, lei sposa una foto di lui, impossibilitato a prendere parte alla cerimonia perché impegnato in università. La città svizzera diventa il campo su cui ha luogo il confronto tra due stili di vita agli antipodi che conduce la coppia, in attesa di una figlia, a tornare in patria. Uno scontro messo in scena attraverso la sinergia di fotografie private e filmati d’archivio della vivace Ginevra del periodo da un lato e lettere realmente inviate e dialoghi immaginati tra i due, che scandiscono il materiale visivo attraverso le voci di due interpreti, dall’altro.
Basso continuo di una partitura polifonica in cui i confini tra il finzionale e il documentario si dissolvono in un atto creativo che, anche in quanto ricostruzione retrospettiva del passato, è necessariamente una messa in forma di quella storia familiare dal particolare punto di vista presente della regista, resta la voce narrante di Khosrovani. E non potrebbe essere altrimenti dato che è lei il punto di sutura delle ferite della sua famiglia, perno di un equilibrio tra due stili di vita dissimili e unica creatura capace di muoversi agilmente tra gli apparentemente così distanti spazi emozionali e culturali dei genitori.
Così l’io della regista si incarna nella bambina che appare nelle stanze della casa iraniana della famiglia (ancora, una messa in forma, architettonica questa volta), che diventa, tra quadri di donne seminude e cuscini per la preghiera, la cartina al tornasole degli equilibri di potere tra il padre e la madre. La dimora, possibile strutturazione spaziale della soggettività dell’autrice, accoglie, fa letteralmente convivere, le dicotomie incarnate dai genitori e, allo stesso tempo, diventa sede della compenetrazione tra collettivo e privato.
La storia di una famiglia si fonde con la Storia dell’Iran quando la Rivoluzione del ‘78, della quale la madre di Khosrovani è attiva protagonista, intrude nella (storia della) casa-soggetto. L’accadimento storico ribalta gli equilibri privati: è ora la madre a muoversi combattiva alla guida delle sue sorelle di fede, mentre il padre, diffidente, ascolta Bach. La radiografia di una famiglia si rivela sineddoche di un’indagine più ampia sulla trasformazione radicale innescata dalla rivoluzione. Un mutamento impresso nelle fotografie private – che da quel momento ritraggono la madre al fianco delle sue compagne attiviste – e nei filmati che la regista ha reperito da altre famiglie iraniane o dagli archivi pubblici. L’autrice cerca nelle immagini d’archivio le somiglianze tra la propria situazione e quella di centinaia di altri nuclei familiari, e trova un modo per dirsi e dire dell’Iran che si manifesta, ancora, in una polifonia.
L’Io che, nel ricercare sé, non può che confrontarsi con l’alterità, colma la distanza deittica con un possibile “loro” e, in uno slancio empatico, si riconosce parte di un “noi” familiare, nazionale, umano. Nell’inattesa scena finale, d’altro canto, questo io, crogiolo delle dicotomie che attraversano tutto il film e loro architrave, salda il presente al passato e porge una mano allo spettatore, imprescindibile interlocutore di questa autoanalisi. Tra le mura dell’ormai nota dimora la regista risponde alle sollecitazioni di sua madre – invecchiata, ma sul cui volto è ancora ravvisabile la fierezza cristallizzata nelle fotografie del post rivoluzione – porgendole il Corano e pone davanti all’obiettivo della sua macchina da presa la radiografia del corpo della donna. La mano della regista entra nell’inquadratura per afferrare la lastra che mostra la colonna vertebrale incurvata a causa di un incidente della madre, metafora della “torsione” causata dalla Rivoluzione. Il cinema, medium radiografico che, attraversando la pelle dell’artista e della sua famiglia, ha scansionato il corpo di un intero Paese, riesce per un’ultima volta a dire “io”.
Riferimenti bibliografici
P. Lejeune, Cinéma et autobiographie, problèmes de vocabulaire, in A. Nysenholc, a cura di, L’écriture du je au cinéma, “Revue Belge du cinéma”, 19, APEC, Bruxelles 1987.
Radiograph of a Family. Regia: Firouzeh Khosrovani; sceneggiatura: Firouzeh Khosrovani; fotografia: Mohammad Reza Jahanpanah; montaggio: Farahnaz Sharifi, Rainer Maria Trinkler; musica: Peyman Yazdanian; produzione: Antipode Films; distribuzione: ZaLab Film; origine: Norvegia, Iran, Svizzera; durata: 81’; anno: 2020.