Quante ore passate a calpestare gli assenzi, ad accarezzare le rovine, a tentare di accordare il mio respiro con il sospirare tumultuoso del mondo! Immerso negli odori selvaggi e fra i concerti d’insetti assonnati, apro gli occhi e il cuore alla grandezza insostenibile di questo cielo saturo di calore. Non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. Ma guardando il dorso solido dello Chenoua, il mio cuore si colmava di una strana certezza. Imparavo a respirare, mi integravo e mi compivo (Camus 1988). 

È un senso di pienezza estrema quello provato da Albert Camus di fronte alla desolazione densa delle antiche rovine immerse nello splendore della natura algerina. Sempre in Algeria, a Orano, sarà ambientato La Peste, apparso nel 1947, che racconta di un’altra desolazione, il deserto umano creato dall’epidemia. L’esilio da ogni forma di relazione umana e la solidarietà come possibile antidoto, che Camus sviluppa nel romanzo, sono diventati realtà con cui ognuno di noi è stato costretto a confrontarsi nell’ultimo anno. Lo hanno fatto anche molti fotografi, descrivendo spazi umani deserti o concentrandosi sulla condizione dolorosa di isolamento e sugli effetti che questa ha avuto sulle coordinate spaziali del vivere quotidiano, al punto di modificare la nostra percezione della realtà. Le nostre città deserte sono diventate oggi disumane, non sono neppure in grado di suscitare in noi l’ammirazione della loro bellezza. È proprio il contrario di ciò che suggeriscono le rovine classiche, luoghi che il tempo ha risparmiato dopo il passaggio rovinoso di disastri naturali o umani; spazi non più abitati ma densi di vita, a patto di saperla cercare.

Josef Koudelka. Radici (mostra allestita presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma) è il risultato di un progetto, durato trent’anni, condotto da uno dei maggiori fotografi della nostra contemporaneità, certamente uno dei più meditativi. Senza porsi limiti di tempo (cosa impensabile quando si voglia affrontare un soggetto senza tempo) il fotografo ceco ha attraversato più volte si può dire ogni sito archeologico del Mediterraneo, dall’Italia alla Siria, dalla Grecia a Israele, dall’Egitto al Portogallo, e molto altro ancora. Divenuto famoso per le foto dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, Koudelka (classe 1938) nasce fotografo di persone, un “umanista” nel senso della Agenzia Magnum (quella di Capa e Cartier-Bresson, cui apparteneva), dedito a osservare la quotidianità soprattutto di profughi e nomadi con sguardo appunto meditativo, non da reporter. In quello spirito però, condiviso da altri fotografi di quella generazione, non c’è differenza tra gli uomini e le cose: l’uomo è sempre presente nelle tracce che lascia, deformi, come nei lavori degli anni novanta sul degrado ambientale, o luminose, nei siti archeologici del Mediterraneo.

Ma a differenza dei luoghi della nostra contemporaneità, che ci sforziamo di comprendere, quelli del mondo classico ci interrogano; i segni di quel passato, apparentemente silenziosi, sembrano richiedere un dialogo soggettivo ai loro osservatori: è un’eredità che ci portiamo dentro e che alcuni riescono a esprimere con la parola o con l’immagine. Qualche decennio fa anche il fotografo napoletano Mimmo Jodice instaurò un dialogo con le pietre del Mediterraneo, trasformando addirittura la sua città brulicante in un affascinante fantasma senza tempo. La fragilità della nostra esistenza (ribadita oggi dalla condizione pandemica) trova consolazione e motivazione nel rapporto con queste nostre “radici” che ci uniscono alle generazioni passate. Per questo Koudelka considera le rovine una sconfitta della morte, un futuro, non un passato, perché queste pietre ci ricordano le rovine che diventeremo e ci invitano, spiega il fotografo, a vivere consapevolmente il presente.

Sospesa tra memoria e oblio, la rovina riacquista significato attraverso lo sguardo. Per i greci e i romani la parola è anche più potente del marmo per conservare la memoria: con entrambi, nella lingua latina, si può generare un monumentum che sappia resistere al tempo. Solo lo sguardo di chi sappia osservare è però in grado di restituire alle rovine la loro dimensione immateriale, spiega nell’introduzione al volume l’archeologo Alain Schnapp. Molto prima della rivoluzione operata dall’immagine ottica, un’altra rivoluzione visuale, quella rinascimentale, aveva fatto delle rovine antiche un soggetto di rappresentazione visiva: Brunelleschi e Donatello misurarono e disegnarono i monumenti di Roma con l’obiettivo di studiare e salvare la memoria. Innumerevoli saranno da quel momento le immagini delle rovine (diventate un genere a sé) prodotte tra il XV secolo e la nascita della fotografia; l’invenzione del dagherrotipo giunse a consolidare l’osservazione come mezzo di conoscenza del passato, oltre che del presente: anche i monumenti “vivi” infatti erano esposti al «grande pubblico dei distruttori», è per questo che John Ruskin, scrittore e pittore, scoprì nella macchina fotografica (nel 1849) lo strumento più idoneo per studiare Le pietre di Venezia, e soprattutto tutelarle dalla decadenza. Ma la consapevolezza dell’autonomia della rappresentazione visiva rispetto alla parola comportò anche la scoperta della sua autonomia estetica, il passaggio da una rappresentazione tecnica a un’interpretazione, dalla misurazione alla scelta dell’inquadratura che restituisca significato, dall’immagine-specchio all’immagine-narrazione.

Koudelka non ha documentato il Mediterraneo, ha intrapreso una narrazione durata trent’anni alla ricerca del rapporto tra le rovine antiche, la luce che le inonda e lo sguardo che le osserva. Per ascoltare la voce di questi luoghi non è utile la panoramica fotografica, che implica un possesso, un dominio, è più opportuna una visione frammentata, fatta di brevi frasi, come sono le foto di Koudelka, in cui i bianchi e i neri acquistano la consistenza di un verso poetico. Non c’è lo sguardo “scientifico” dei primi misuratori di rovine, Koudelka sottrae le rovine al tempo, i suoi frammenti le rendono atemporali, e inoltre le decontestualizza, non è importante a quale sito appartengano (e in effetti le didascalie puntuali che accompagnano le immagini corrono parallele al percorso iconografico: è un discorso di decontestualizzazione-ricontestualizzazione che l’osservatore percepisce senza difficoltà).

Koudelka, come dice, vuole rappresentare la «forza» di queste tracce della nostra storia; ciò che lo ha guidato nei suoi viaggi nel Mediterraneo è il «fascino», la «solitudine», il «silenzio» della bellezza, «una bellezza che suscita e nutre il pensiero». Ma non è tutto: c’è «una poesia e un’intelligenza» anche dietro «la perfezione dei siti scelti dai costruttori». Greci e Romani sono stati per il fotografo i più grandi paesaggisti della storia, ci hanno regalato il miracolo del connubio di bellezza e tempo che il Mediterraneo ci suggerisce ad ogni sguardo.

Riferimenti bibliografici
A. Camus, Nozze a Tipasa, in Opere: romanzi, racconti, saggi, Bompiani, Milano 1988.
M. Jodice, Mediterraneo, Art&, Udine 1995.
J. Koudelka, Radici, Contrasto, Roma 2020.
J. Ruskin, Le pietre di Venezia, UTET, Torino 1967.

Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza, di Joseph Koudelka, Museo dell’Ara Pacis, Roma 1/02-29/08 2021. 

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