Cento anni dalla nascita di Calvino, settantacinque appena trascorsi dal suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo il successo indiscusso, una fase di relativa oscurità critica: Calvino “postmoderno” (usato talvolta a mo’ di insulto per chiudere ogni discussione), Calvino incapace di accedere davvero alla “vita”, Calvino algido o prono ai divertissements combinatori. Perché il testo, il linguaggio, le forme narrative che spesso sono state viste come fine ultimo degli esperimenti calviniani, restituendo l’immagine di uno scrittore tutto mentale e insensibile ai sommovimenti dell’animo umano, sono invece il correlativo di quel reale caotico e contraddittorio. E contraddittorio e caotico è, al fondo, Calvino stesso.

Lo è il suo stile, «semplice» (Testa) ma complesso, come ci hanno ricordato di recente Sergio Bozzola e Chiara De Caprio e come già aveva osservato Pier Vincenzo Mengaldo. Lo è la sua produzione: autore raffinato, da alcuni considerato addirittura cervellotico, ma che piaceva, piace al pubblico. Lo è la sua postura pubblica: intellettuale d’antan e «cinico bimbo incolume» (questa la definizione di un supercilioso Fortini). Lo è la sua poetica, che annusa il superamento della forma-romanzo tradizionale e a modo suo si muove verso la bassa finzionalità, coi saggi che si fanno racconto e i generi che collassano e si mescolano.

L’idea di un Calvino algido e cerebrale che pure lui stesso ha forse contribuito a creare è dunque un po’ scentrata. Algido è (apparentemente) il meccanismo testuale: ma poi è sempre un po’ sgarrupato. Insomma l’esibita, apollinea quasi, oliatura del meccanismo si inceppa per la confusione. L’impianto, è vero, è il più possibile logico. Eppure questa logica, serrata come un algoritmo, a ogni iterazione produce risultati più sconclusionati e il cosmo si rivela caos.

Ecco perché i finali delle opere di Calvino sembrano non concludere e mettono un punto in modo imperioso, come se il narratore si stizzisse a vedere che quella macchina così accuratamente predisposta non funziona. Dai paradossi senza una vera soluzione di Ti con zero, all’allentamento dell’ordine che colpisce Marco Polo e il Kahn nella cornice delle Città, alla chiusura d’imperio, con un cliché narrativo esibito (il matrimonio dei protagonisti), di Se una notte, e indietro, fino alla conclusione parossistica e di nuovo imperiosamente metanarrativa del Cavaliere inesistente; senza contare La nuvola di smog, La formica argentina e ancor più la Giornata di uno scrutatore. Finali che non lasciano mai pienamente soddisfatti e rivelano un disagio anzitutto intellettuale, relativo al posizionamento del soggetto rispetto al mondo − al reale.

È nella forma narrativa che questo disagio si esplica. D’altra parte si sa, le storie di Calvino sono spesso storie di approcci sbagliati al mondo, di «scacchi gnoseologici» e/o esistenziali (riprendo qui una definizione di Milanini): mostrano quel che non si può fare, le strategie fallimentari. Lampante, in questo senso, è lo schema che Calvino produce per Se una notte: ogni incipit descrive un modo di affrontare la vita che non porta da nessuna parte; pertanto la storia s’interrompe. E se la temperatura emotiva è generalmente bassa, ciò non significa che non siano i moti profondi, a tratti inconoscibili, dell’umano a dar forma ai racconti di Calvino.

E qui sta la funzione conoscitiva calviniana: la narrazione come conoscenza, produzione di senso. Non tanto nell’ottica di un pertrattato narrative turn per il quale conoscere significa sempre narrare. Se mai perché narrare significa modellizzare, cogliere l’essenziale. «Per costruire un romanzo – o un’evasione – la prima cosa è sapere cosa escludere» (Calvino 2023). Qui anche il parallelo molto citato per Calvino tra linguaggio e macchina narrativa: in entrambi i casi siamo davanti a qualcosa che fa sistema (anche se un sistema sempre incompleto) in cui il senso emerge relazionalmente e differenzialmente. Lo si vede bene se si osserva uno dei motori narrativi più classicamente calviniani, e con qualche sorpresa se si vede solo il Calvino virtuale e oulipista: la donna, o meglio, il principio femminile. Differenza radicale rispetto ai protagonisti, perlopiù maschili che entrano con esso in una relazione asimmetrica.

È questo principio femminile che produce intreccio: attira a sé il protagonista per mezzo del desiderio, e gli sfugge. Nelle Cosmicomiche è quasi la funzione base di tutti i racconti, ma lo si vede già nel Cavaliere inesistente (dove il debito con Ariosto è in ciò esplicito), in molti Amori difficili, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, in diversi racconti del Castello dei destini incrociati. E che dire delle Città invisibili, dove l’ansia del gran Kahn di conoscere il proprio impero coincide con quello di conoscerne le città, che portano tutte nomi di femmina?

Dunque, la donna fugge, i protagonisti le vanno dietro, l’intreccio si crea. Il desiderio è incontenibile, Qfwfq non può non pensare a lei, anche dopo secoli o eoni dal loro incontro. Vuole raggiungerla, e in vario modo possederla. È significativo che il mite e svagato Qfwfq solo di fronte alle sue controparti femminili dia mostra di forti accessi d’ira, crisi di gelosia: il mancato possesso. E allora Qfwfq s’interroga su di lei, su cosa desidera, cosa pensa. Vuole conoscerla: e dunque possederla. Così nel suo racconto egli cerca di ricostituire con noi la fabula, possedere e ordinare il racconto secondo logica e scansione temporale, evidenziandone i nessi causali e così dargli senso. Conoscerlo, dunque, possederlo (intellettualmente). La donna, il racconto: due immagini che rimandano a una medesima alterità. E l’alterità ultima è, insegna la psicoanalisi, il Reale. Che i protagonisti vorrebbero possedere, disciplinare: disciplinare il racconto, disciplinare il principio femminile, disciplinare il Reale.

Ma la donna si oppone, svicola, così il racconto si sfalda, nel racconto Facciamo una scommessa? le previsioni di Qfwfq diventano sempre meno precise man mano che il mondo avanza, e si complica, e aumentano le variabili fino a toccare le soglie di quella che oggi chiamiamo teoria del caos. Il racconto, e la donna, non si lasciano possedere mai del tutto. Ella spiazza: cambia idea, gusti, alleanze. Non direi che è una rappresentazione stereotipa della volubilità femminile: è se mai segno della difficoltà ad afferrare il reale, il correlativo dell’incepparsi della macchina narrativa.

Misteriosa, sfuggente, imprevedibile talvolta anche traditrice (cioè: che non rispetta un patto, un accordo implicito che il protagonista le assegna), la difficoltà a possedere la donna calviniana è la difficoltà a simbolizzare (narrativamente) e così conoscere il reale. Sapere è potere: ma la conoscenza non è mai integrale così come il potere non è mai riconducibile alle mani di un singolo, che anche mentre lo esercita non sempre lo capisce fino in fondo (e infatti Qfwfq a distanza d’anni ancora non comprende quali siano stati i suoi errori…). Attenzione, però: difficoltà non vuole dire impossibilità.

L’inseguimento ha un fuoco (la progressione narrativa), la narrazione aggira certi elementi e ne testualizza altri e consente un avvicinamento a quell’Altro che è la donna. E dunque al reale. La progressione narrativa è una progressione conoscitiva, incamera l’asistematicità e però non arresta il percorso. Anzi, lo stimola. Lo scacco dei protagonisti indica solo che è il loro tentativo totalizzante (la ricerca di Palomar del «modello dei modelli») a far sì che l’oggetto del desiderio sfugga.

Il Reale va avvicinato rispettandone l’alterità, l’autonomia. L’amore è per Lacan proprio riconoscere questa alterità, il fatto che Io e Altro formano un sistema e siano conoscibili solo nei loro rapporti reciproci. Così, il linguaggio, il racconto, il saggio: modi per astrarre dal concreto una virtualità che non è mai sufficiente a se stessa (tanto meno per Calvino), ma sempre in relazione con quel reale che possiamo conoscere davvero solo attraverso l’atto intellettuale, che simbolizza, sistematizza. Certo: nella consapevolezza novecentesca che il sistema non è mai totale, e che non tutto si terrà. Quindi, altro che rifugiarsi nell’empireo letterario: siamo a una prassi conoscitiva che rifiuta ogni isolamento, anche se i rapporti con il fuori-testo sono (salvo che nella fase finale, forse: dalla Collezione ai Cinque sensi, dove la fisicità del mondo e del nostro rapporto con esso diventa dominante) indiretti, spesso metaforici.

Amare qualcuno, si diceva, per Lacan, amare davvero l’Altro – altro come il Reale –, significa riconoscergli una autonomia anzitutto simbolica,  l’impossibilità di un controllo o possesso o conoscenza (che non può che passare dal simbolico, ossia dal linguistico) integrale, una relazione asimmetrica, dove manca sempre qualche informazione (un implicito, un punto cieco, un segreto o una menzogna, in termini veridittivi) una distanza-da-me che impedisce la pseudoconoscenza del possedimento narcisistico (l’altro come me stesso: conoscenza masturbatoria); e certo proprio per questo apre al rischio: che il Reale diventi sconquasso generale, che il percorso narrativo termini nel nulla, insomma che l’amore devi, che il principio femminile si avvicini a uno degli antagonisti di Qfwfq, si diriga altrove, per un po’ o per sempre. Ma il rischio va corso, il tentativo di conoscenza va fatto, pena l’impossibilità di una significazione, cioè di conoscere l’Altro, di simbolizzare il Reale. E perciò in termini psicoanalitici: l’angoscia.

Il percorso di Qfwfq accumula in effetti conoscenza − anche se sempre incompleta, non pienamente dicibile e un po’ sbagliata, essa nondimeno ci avvicina certo a quell’Altro che desideriamo e temiamo, ma asintoticamente. Dunque un processo infinito, o almeno speriamo sempre lo sia. Così infatti si rinnovano senza esaurirsi le avventure della conoscenza o, che è lo stesso, le storie d’amore.

Riferimenti bibliografici
S. Bozzola, C. De Caprio, Forme e figure della saggistica di Calvino, Roma, Salerno 2022.
I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, Mondadori, Milano 1993.
I. Calvino, Ti con zero, Mondadori, Milano 2023.
P. V. Mengaldo, Aspetti della lingua di Calvino, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991.
C. Milanini, L’utopia discontinua, nuova ed. Carocci, Roma 2022.

Italo Calvino, Santiago de las Vegas de La Habana 1923 − Siena 1985.

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